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Punta Zumstein e Punta Gnifetti o Signalkuppe

 

 

Mai salita ebbe una così lunga ed estenuante attesa...

La storia del mio personale incontro con la Punta Zumstein risale esattamente ad un anno fa, anzi, ad un anno ed un mese. Il tre agosto del 2008, durante la parte finale della salita alla Punta Gnifetti o Signalkuppe, qualcosa scattò nella mia mente, per non lasciarla più: un desiderio, un moto in direzione di, una fortissima e tacita attrazione che mi avrebbe silenziosamente blandito e chiamato per tutto l'arco dell'anno morente e per i primi otto mesi del 2009. Era la solita vecchia storia, anzi, una storia antichissima, la più antica: un uomo, un intelletto, viene a contatto con qualcosa e, finché non l'avrà raggiunto, la tensione verso l'oggetto dei suoi desideri lo consumerà, spronerà, insulterà e spingerà incessantemente.

E' al contempo strano e piacevole rileggere questa pagina, alla luce della mia nuova salita alle Punte Zumstein e Gnifetti avvenuta nell'agosto 2012. Ma allora, ciò che mi intrigava ed intimoriva, ciò che mi richiamava da lontano, poteva essere difficilmente definita a parole; e se proprio avessi voluto rendere tutto ciò, avrebbe parlato in questo modo antico ed ammaliante.

(...) Mi parlò allora con queste parole Circe possente:

E così tutto questo è compiuto. Tu però ascolta e fa' come io ti dirò: te lo ricorderà anche un dio. Tu arriverai prima dalle Sirene, che tutti gli uomini incantano, chi arriva da loro.

A colui che ignaro s'accosta e ascolta la voce delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini gli sono vicini, felici che a casa è tornato,

ma le Sirene lo incantano con il limpido canto, adagiate sul prato...

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Da molto tempo amavo, anzi, veneravo l'Odissea, con la passione e l'eterno stupore di chi apprende di come un ignoto Autore abbia potuto ritrarre la mia storia sin da nove secoli prima di Cristo. Preso tuttavia da tutto ciò che di bello, di negativo e soprattutto di urgente può occorrere in circa tredici mesi di esistenza, non ricordavo di certo il Libro Dodicesimo; a differenza del mio primo grande Eroe, io non potevo nemmeno vantare un eclatante ritorno dalla casa di Ade. Né vi ho mai incontrato un benevolo e malinconico Tiresia disposto ad elemosinare divinazioni e suggerimenti, perché tutto quel che ho fatto, sbagli compresi, è sempre provenuto dal mio sacco. La mia Sirena, è ormai chiaro, aveva lanciato il proprio richiamo e questo aveva fatto presa: ricordo come durante tutta la lunga discesa dalla Punta Gnifetti non avessi quasi badato a dove mettevo i piedi, continuando a voltarmi, al contempo contento e rammaricato, verso di lei. E per una volta nella vita non indulgevo nella mia abituale ricerca di informazioni, pur circondato da Guide alpine di chissà quante nazioni, da esperti alpinisti e da alpinisti della domenica: per una volta, i canonici valori su cui correttamente si basa l'appassionato di montagna (e, a maggior ragione, colui che di montagna deve scrivere e descrivere) non mi interessavano. Non avevo urgenza di conoscere durata, difficoltà, pendenza; non bramavo confrontarne il dislivello, non mi premeva sapere se avrei dovuto arrampicare su roccia o camminare su neve, non ero nemmeno ansioso di conoscere l'ubicazione e gli spostamenti usuali della crepaccia terminale.

Al di là di ogni cosa, al di là della stessa stanchezza celebrata dalla sacra London Pride nel baretto di Stafal, io volevo lei. Io volevo salire la Punta Zumstein, lo volevo in un modo che con lo sport, l'esplorazione e la conoscenza alpina non aveva nulla a che vedere. Io la volevo, a prescindere da ogni cosa, perfino dal suo nome; ed al contempo non la sentivo mia, quando dalle altre vette lo sguardo correva a sinistra della Punta Gnifetti, e questo mi feriva e spronava. E così, come ogni anno, i mesi si sono subdolamente dipanati uno dopo l'altro, ognuno portando o rubando qualcosa. In dicembre mi sono laureato per l'ultima volta e, la notte, non ho sognato i quindici docenti alzarsi in piedi ad applaudire la dignità di lode, ma una fredda lama bianca su un gelido pianoro battuto dal vento, privo di sfondo. In gennaio, come ogni brillante neolaureato italiano sull'orlo della disoccupazione, ho inviato centinaia di curriculum vitae e sostenuto colloqui di lavoro, e sentivo come non fosse quello, il mio posto; a febbraio lavoravo da due settimane, ed un pulsare silenzioso nelle profondità meno razionali della mente intercalava un nuovo mantra, non ancora, non ancora, non ancora. E' arrivato luglio, trascorso facendo la spola tra la mia base milanese e Champoluc, ove, dovendomi trovare online intorno alle 10.30 mattutine, ho escogitato una delle mie decisioni personalmente più azzeccate: alzarmi alle quattro, camminare prima e dopo le luci dell'alba, rincasando per le dieci e presentandomi al giusto momento, infinitamente soddisfatto, sulla Rete. Le mie punte preferite, le cime che da sempre venero e che maggiormente mi mancavano, le luci incerte dell'alba, l'esplosione solare alle spalle della Testa Grigia, gli animali, la totale assenza della fastidiosa presenza umana: una manna, una infinita teoria di angoli di paradiso ritagliati e cuciti a mia misura. Naturalmente, non sempre tutto torna. Il maltempo ha interdetto un "4000" da lungo pianificato, separando me ed il mio compagno di cordata da una coppia di carissimi amici con i quali avremmo voluto salire. Rifugi sovraffollati, difficoltà a prenotare di nuovo, lavoro... Per fortuna, intorno al 15 luglio, Federico aveva prenotato due posti al rifugio Mantova per la fine di agosto, ed era intorno a quei due magici giorni che focalizzavo le mie giornate. Ci saremmo arrivati, ma, come sempre, non ancora. Il 16 luglio salgo la bellissima e selvaggia Piure, in solitaria e, questa volta, partendo solo alle 5.30. Dall'anticima ove mi riposo costruendo un piccolo ometto, la mia Sirena mi chiama e, al contempo, ride di me; torno a valle irritato e di fretta, divoro il medio vallone di Mascognaz a passo di corsa, ma non è per il lavoro che sto correndo tanto. 

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I giorni e le escursioni si sono snodati incessantemente, fino al 17 agosto 2009, quando, intorno all'una, mi sono ritrovato da solo in vetta alla indescrivibile solitudine della Punta di Soleron, quasi schiacciato al cospetto della disarmante ed opprimente mole del Monte Nery, là davanti. Quel che ricordo maggiormente di lei è l'impressionante connubio di luce e calore solare, che dallo zenit mi inondava, mi pressava al suolo, ad ore di distanza da qualsivoglia sorgente. L'infinita discesa in cresta, poco prima di ritrovare il mio amico in paziente attesa alla Punta Champlon, mi ha lasciato stordito e quasi al di là della stanchezza: stanchezza psicologica, non meramente fisica, la stanchezza di ore passate a valutare ogni passo ed ogni presa, nella consapevolezza di non potersi permettere salti o scivolate, di non doversi mai fidare, di dover tastare ogni roccia, ogni eterno tratto ripido d'erba olina. E quella notte, finalmente, ho saputo: ce l'avrei fatta. L'immagine della Zumstein è esplosa nella mia mente quasi insonne, facendomi alzare dal letto ed uscire sul balcone, nella quiete di Champoluc. Qualcosa si è finalmente sciolto, l'inquietudine si è allontanata, e ho sentito forse più vicina, più mia, la bella ed infida Sirena che da un anno mi tormentava a distanza. (...) Tu però ascolta e fa' come io ti dirò, aveva ordinato la figlia del Sole, aggiungendo sicura: Te lo ricorderà anche un dio.

Nel mio caso, la bruciante carezza solare con cui mi aveva sferzato la superba e remota Soleron aveva lavato via molte cose. Tra di esse, il timore, la sensazione di non appartenenza, di non- diritto a volermi appressare a quella gigantesca lama di ghiaccio traslucido scorta all'inizio dell'agosto 2008. Non sono forse le montagne, da sempre, i soli dei che mi abbiano aiutato o respinto, esaltato, visto crescere? La percezione di questa svolta eterea, sovrannaturale, persisteva tenacemente la mattina successiva. 18 agosto 2009. Commissioni, lavoro, perfino l'invito a presentare il mio libro a Lodi: come sempre, il giorno riporta alla realtà. Invitavo pertanto me stesso a restare su un piano razionale, concreto, tangibile e culturalmente accettabile: una vetta è una vetta è una vetta, le Sirene esistono solo nella misura in cui ce ne lasciamo influenzare, mio caro. E' una montagna, o sarai in grado di salirla o dovrai rinunciare con tuo grande dispiace e vergogna, ma non ti rapirà e di certo non ti trasformerà in alcun tipo di quadrupede commestibile. Il sonno della ragione genera mostri, e poi, santi numi!, sei figlio di una civiltà che ha impiegato migliaia di anni per approdare a sponde più o meno scevre da oscurantismo, assurdi dogmi religiosi, ataviche superstizioni ed ignoranti credenze. Datti un contegno, dannazione. E via dicendo.

Obbediente alla mia stessa esortazione, ho dunque cominciato, con un anno di ritardo!, a studiare la mia dea, pardon!, la mia concreta e tangibile vetta. Ho sciolto le redini di Google e ho navigato, come Melville, per oceani e biblioteche; e prima ancora, fedele alla mia passione bibliofila ed al profumo della carta stampata, ho aperto i manuali, il summa di due secoli di conoscenza umana delle Alpi Occidentali. Tuttavia, è inutile negarlo, sapevo che mi accostavo al lato materiale e scientifico del problema solo in seguito alla deliziosamente irrazionale Svolta Notturna, e che tale Svolta Notturna era giunta in seguito al favore di Qualcuno... Una colossale e perfetta piramide di cupa roccia, ammantata di ripida olina, incastonata altezzosamente al disopra dei valloni di Chasten e di Graines. Tra atavico panteismo e moderno raziocinio, prima che la sera scendesse di nuovo, avevo raccolto una messe di dati inerenti alla Zumstein. Dovevo solo rileggerli, ed avrei razionalmente conosciuto la mia agognata vetta, e tutto sarebbe tornato finalmente ad una dimensione normale, come ripeteva sdegnata la mia mente: Non dimentichiamo, caro il mio paganeggiante montagnino, che la Scienza è tutto quel che abbiamo, e che rinnegarla significa sputare indegnamente su migliaia di persone che hanno lavorato, sofferto e si sono sacrificate per permetterci di...

Vabin, vabin, capito il messaggio. Leggiamo. E' una delle quattro punte più alte del Monte Rosa, premette Gino Buscaini ne Monte Rosa e Mischabel: 4563 metri, la terza in ordine di altezza, dopo la Dufour e la Nordend. Per la cresta Sud-Est (via normale): dall'ampia sella glaciale del Colle Gnifetti si percorre la nevosa cresta SE, non ripida (30 minuti; ore 3.30- 4 dal rif. Gnifetti). F. Schizzo 58. Ammiro il disegno in china, ritraente la Zumstein, la poderosa Dufour e la Nordend. La carta stampata, come il peso del libro, è rassicurante. Sorprendente come l'attrazione di una vetta sia un fenomeno prepotentemente soggettivo: Richard Goedeke, difatti, nel volume "I 4000 delle Alpi scrisse Si tratta di una piramide rocciosa non particolarmente appariscente tra la Punta Gnifetti e la Punta Dufour. Ma che ambiente! Anch'egli, al termine delle considerazioni, attribuisce alla normale la difficoltà F, Facile. Curiosa la sua voce Piaceri, alla quale leggo candidamente Un'altra vetta davvero alta nel carniere. E che panorama!

Edito nel settembre 1925, Gruppo Monte Rosa di Amilcare Bertolini e Giuseppe F. Gugliermina descrive il Pizzo Zumstein (4563). Per la cresta S.E. o pel versante S.O. Dal ripiano superiore del Grenzgletscher in un'ora al nevaio fra il Pizzo Zumstein e la Punta Gnifetti; di qui in 45' facilmente alla vetta.

Giulio Berutto, ne Cervino - Matterhorn e Monte Rosa, ci ha regalato un libro meno "personale", contraddistinto da un rigore più prossimo a quello del grande Buscaini. F+ \ PD-, leggo. (...) Non molto ripida, può presentare dei tratti di ghiaccio vivo nella seconda metà; seguono delle facili roccette affioranti, una breve placca e si giunge in vetta (30 minuti). Mario Vannuccini, nel suo I 4000 delle Alpi, si limita a sancire F; crepacci, affermando La vicina Punta Zumstein, benché più leggermente elevata, gode di minor popolarità, e viene toccata quasi esclusivamente dalle cordate che si dirigono verso la Punta Dufour. Egli chiude con un altro giudizio soggettivo, lontano anni-luce dalla mia percezione, perlomeno nel 2008: (...) ma certamente l'attenzione viene catalizzata dalla Punta Gnifetti, forse per il fatto che sulla sommità si trova un rifugio o forse per la sua forma elegante. O forse sono io ad essere irresistibilmente attratto dalle vette dalla forma triangolare, slanciata, piramidale.

Tra i vari Excel, Access ed Explorer aperti, torno alla tredicesima fotografia della Galleria dedicata, un anno fa, alla Punta Gnifetti e concludo di non sapere ancora molto. Trascorrono le ore e, dopo pranzo, approfitto di una pausa estemporanea per approfondirne la storia, sorseggiando caffé al calor bianco a prudente distanza dai miei preziosi libri. In serata, gusto appieno il colore e le vive immagini ritratte da Eugenio Fasana nel 1931, nelle pagine del bellissimo "Il Monte Rosa. Vicende uomini e imprese".

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La mia Sirena, terza cima del massiccio del Rosa ad essere raggiunta dagli alpinisti, ha incantato sin dal 1819 gli uomini: due pionieri, Johann Nicolas Vincent e Joseph Zumstein, posero piede sulla bella vetta che da allora porta il nome del primo dei due, la Piramide Vincent. L'effetto scatenato su di loro fu evidentemente tale da portarli ad pianificare una spedizione di tredici unità per il 1820, cui prenderà parte l'ing. Molinatti, membro della Regia Accademia delle Scienze. La mala sorte si accanisce contro gli alpinisti che, il 26 luglio, sono costretti alla rinuncia dal meteo, mentre durante il tentativo del 31 luglio sono costretti a trascorrere la notte, in undici, in un crepaccio sottostante la Parrot, a circa 4200 metri, sprovvisti dei moderni abiti d'alta quota. Intorno alle dieci di mattina del giorno seguente Zumstein raggiunge la vetta, ritenuta finora la più alta del Rosa; la squadra lascia una croce di ferro sulla sommità rocciosa, che inizialmente si sarebbe voluta chiamare Cima dell'Alleanza. Ad ogni modo, nel 1825, il barone Franz Ludwig von Welden (1780 – 1853) battezzò ufficialmente Zumsteinspitze questa sommità, mentre solo nel 1842 la pur vicina Punta Gnifetti venne salita per la prima volta, malgrado i reiterati tentativi. Joseph Zumstein tornò in vetta alla "sua" punta l'anno seguente ed ancora nell'agosto del 1822, portando con sé un termografo, mentre Molinatti, due stagioni prima, aveva utilizzato un teodolite per le prime misurazioni di distanza ed altezza. La prima salita invernale avvenne infine il 20 marzo del 1902 da Ettore Allegra, insieme a Dayné e Welf; e poi, migliaia e migliaia di uomini e donne sono entrati, consapevolmente o meno, a far parte di questa grande Storia, forse ammaliati a loro volta dal lontano canto di una di quelle ingannevoli donne contro cui metteva in guardia Circe possente. 

Punta Zumstein. Salita

Il rifugio Mantova al Garstelet, gestito dalla Monterosa Hutte di Paolo Comune, ci accoglie alle 16.44 di sabato 29 agosto 2009. Vi è ben poco che non sia stato ancora scritto su giornali, manuali o siti Web a proposito di questo eccellente rifugio, collocato a 3498 metri di quota; o meglio, qualcosa di importante c'è, poiché il Mantova è stato interamente rinnovato ed ampliato verso occidente grazie al lavoro della ditta Chenevier di Charvensod, su progetto degli architetti Quattrocchio e Binel. L'effetto è stupefacente: entro nella penombra di una saletta destinata ai materiali, dove mi tolgo gli scarponi, scegliendo un paio di Birkenstock quasi del mio numero. E' stata predisposta anche una vasca con capacità di 40.000 litri e, presto, verranno realizzati box doccia e servizi igienici interni al rifugio, separati per gestori e clienti; ma è nulla rispetto al grande, nuovissimo salone in legno. L'ingresso, nel sole pomeridiano che ormai cala verso i Tournalin, è abbacinante: Santi numi, mi sfugge, abbagliato dalla vampa solare che penetra indisturbata dalle finestre.. Pare che il lato ovest conti più vetro che solido legno, è bellissimo. Un centinaio di posti a sedere, ampie tavolate, e spazio a iosa tra i tavoli e l'ampio bancone, nel quale è stata sapientemente integrata una bella, grande e costosa stufa. Più in là, tre grandi cilindri in acciaio marcati Té, Caffé e Latte montano la guardia alla cucina, mentre perfino i contenitori della raccolta differenziata - importantissimi, in quota - sono dissimulati alla vista. Emergono solo discreti coperchi blu. Un lavoro incredibile; chiunque l'abbia ideato doveva ben sapere cosa desiderare a 3500 metri!, e chi lo ha costruito doveva avere un'ottima fiducia in sé stesso e nelle moderne tecnologie ambientali.

Siamo in due, io e Federico, partiti alle 14.55 dai Salati, 26 Euro di spesa (di cui uno reso su cauzione al rientro). Sfortunatamente finiamo in un grande camerone che conserva buona parte degli 80 posti letto del rifugio, in letti a castello; i nostri sono i numeri 37 e 38. La cena è ottima, con pasta al sugo e formaggi di due tipi differenti, con contorno di puré di patate e budino al cioccolato; ci concediamo il lusso di un quartino di vino rosso, mentre al tavolo accanto al nostro viene portata una torta di compleanno per un giovanissimo alpinista, per il quale l'intero salone esplode in applausi. La serata è bella ed allegra, poiché nel tardo pomeriggio, mentre spaparanzato al sole sulla terrazza (in probabile corso di estensione verso ovest, approvo compiaciuto pensando al prossimo anno) guardavo i lontani contorni del Monte Zerbion, una manata e Ma noo! Ma chi si vede qui! hanno preannunciato l'arrivo dell'amico Rudy Perronet. Rudy, quasi mio coetaneo, è aspirante Guida alpina della Val d'Ayas, persona piacevolissima ed estremamente simpatica, oltre che competente: l'ideale sia per affrontare una serata giù al Nigra, a Montjovet, sia per una esaltante "cavalcata" di quattromila nel Rosa, oppure ancora per arrampicare su falesie assolate, in riva al mare. Viene rapito dai colleghi per un aperitivo che, con l'invidia di tutti, attira il personale femminile del rifugio tra brindisi e scatti fotografici, ma per tutta la cena chiacchiereremo del più e del meno, pianificando la "copertura" offerta da Varasc.it all'iniziativa Val d'Ayas 360°. Incontriamo una giovane coppia di Verrayes, molto cortese, che per più volte ha tentato di conquistare il Monte dell'Aquila... E' forse possibile non diventare immediatamente amici? 

La notte trascorre meno positivamente e, purtroppo, lentissima. Molto caldo nel camerone e, soprattutto, il caos di alcuni maleducati alla mia destra, palesemente su di giri per l'alcol ingerito, palesemente incapaci di comportarsi a modo in un simile contesto di montagna. Alle 4 in punto scatto fuori dal letto bassissimo, colpendone il soffitto su cui dorme Federico, e prima che io stesso abbia pensato Meno male!, ho già piegato il piumone arancione e recuperato lo zaino, rivestendomi al buio e schizzando giù per le scale. Riprendo a respirare nel salone e, prima di capire quel che sto facendo, mi riempio una scodella di latte. Latte: non lo tocco da quando ne ero obbligato, verso i sette, massimo otto anni d'età. Oh beh, mi dico, fatalista, sorseggiandola con una bustina di zucchero "propedeutica"; quindi, tazza di caffè, con tartine alla Nutella. O quel che è, sa di nocciola, ad ogni modo. Arrivano anche Federico e Rudy, stanno tutti bene, compresi i simpatici clienti del nostro amico, tra cui un cortese signore molto simile all'attore Sean Bean. Fuori non fa freddo. Mi lavo i denti nei vecchi bagni esterni, augurandomi che sia l'ultima volta!, mentre le stelle, indifferenti, sembrano pulsare; una chiazza di luce si estende a sinistra, là in fondo, dove dovrebbe esserci Novara. La gente indugia sulla terrazza, giacche slacciate e senza guanti, scattando fotografie; il Mantova risplende livido per pochi nanosecondi, le bandiere garriscono e schioccano, in alto. Federico calza i ramponi e ci leghiamo accuratamente, lasciando forse meno corda tra di noi di quanto avremmo successivamente voluto. Partiamo alle 5.00 e, cento metri oltre, mi fermo al margine della pietraia per calzare a mia volta i ramponi che, da bravo biellese ordinato, non ho voluto sciupare sui sassi. Molti, intorno, stanno facendo la medesima cosa, non devo nemmeno accendere la frontale; l'aria è ferma, non fa assolutamente freddo e la Vincent riluce cupa, meno brillante delle luci fisse del rifugio Gnifetti, sopra di noi.

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La traccia si dipana sui grandi falsipiani glaciali ai piedi della Vincent prima, del Corno Nero e della Ludwigshöhe successivamente, fino a portarci al primo punto di pausa, l'ampio e pianeggiante Colle del Lys, a 4255 metri, in asse con l'imponente sagoma del Lyskamm Orientale. Più avanti e sulla destra, la gonfia sagoma della Parrot; oltre, in alto, l'immensa salita che conduce al Colle Gnifetti, sovrastato dalla Punta omonima a destra, dalla bellissima Zumstein a sinistra. Sorrido a Federico, commentando che fino a qualche anno fa confondevo ancora il Gnifetti con il Colle del Lys, mentre beviamo té ed assaggiamo le mie albicocche secche. Intorno a noi, moltissime persone, cordate da due o cinque, sette componenti; la giornata è perfetta, il sole ci inonda e mi soffermo a guardare una piccola farfalla bianca svolazzare indefessa in direzione del Grenzgletscher. Aumento di tre metri esatti la lunghezza della corda tra di noi.

Sono le 8.30 quando raggiungiamo il Colle Gnifetti, a 4454 metri, in perfetta forma, tranquilli. Scherziamo con due alpinisti che si sono staccati dal grande gruppo di cordate dirette a destra, verso la sagoma torreggiante del rifugio Regina Margherita alla Punta Gnifetti; stimo che la Zumstein disti circa 400 metri in linea d'aria da noi, mentre con calma prendo l'ennesimo waypoint. Ci spalmiamo abbondante crema solare, beviamo e riposiamo un po', ammirando l'incredibile panorama offerto dal "mare di nubi" che sommerge uniformemente il Piemonte, la Lombardia e la Confederazione, là davanti; è come essere sugli spalti di un castello. Due elicotteri roteano verso la Punta Gnifetti, due piccoli aerei da turismo, tutti vetrate e motori, rombano con insistenza sopra di noi ed ora suppongo di far parte di qualche pixel in uno sfondo del desktop a Kyoto o Mosca o dovunque provenissero quegli abbienti tizi non in grado di salire quassù con le proprie gambe. Così, cortesemente, salutiamo e sorridiamo; è presto, non sono nemmeno le 9 e non siamo nemmeno sudati, che diamine. Inoltre il mio (in)fido camelbag non s'è congelato e le infernali ghette, creature del demonio!, non osano muoversi di un millimetro. Controlliamo i ramponi, e via. 

Una breve rampa premette ad un tratto di cresta nevosa più sottile, più aereo, bellissimo: sembra vi sia passato un piccolo tagliaerba, la traccia è regolare e perfetta, profonda due spanne e contornata da alti bordi che, se fossi alto mezzo metro, mi tornerebbero utili come balaustre laterali. Tutto riluce, tutto scintilla; ben presto i fianchi di neve svaniscono, condensandosi sui due lati in una paritetica, scenografica caduta, molto impressionante sul lato destro, nella generica direzione di Macugnaga. Le nubi immote, là sotto, colmano tutto e mi privano di riferimenti certi, né so dove esattamente inizi la Svizzera e dove l'Italia; la cresta, ben lungi dalla possente teoria di saliscendi che rendono unico il Castore, termina tuttavia ben presto. La sua larghezza è scarsa, mi permette di tenere i piedi affiancati ma, ripensandoci, preferisco una posizione più solida, poiché improvvise raffiche di vento provenienti dalla Nord dei Lyskamm ci assalgono; all'improvviso siamo sotto le rocce e la Zumstein, la mia Sirena, ci protegge. Sento il vento scorrere ululando mezzo metro dietro di me, sento schioccare ancora le cinghie dello zaino, poi calma assoluta. Bonaccia. Fede è un po' preoccupato, mi confessa, così agiamo con calma: in mente invece ho solo un urlo continuo, senza parole, che mi spingerebbe a levare l'ingombrante dragonne e buttarmi su per le roccette. Su, dove non vedo più niente, dove intuisco una ripresa della rampa nevosa... Qui la corda striscia, si impiglia negli anfratti, e ci sono già alcune cordate che si avvicinano al Colle Gnifetti; e soprattutto, io devo salire lassù, è troppo importante. Mi trovo così in pieno transfert, in piena dualità emotiva stevensoniana alla Jekyll & Hyde: rassicuro con calma il mio amico, tengo ben tesa la corda e mi muovo solo su sua indicazione, tutto alla lettera... Se me lo chiedesse, mi metterei a cavalcioni sulla cresta, infilzerei ventiquattro punte di rampone ed una di picca nella neve, e per smuovermi ci vorrebbe l'artiglieria. Ma in testa ho solo una voce, che ora dice: Sali. Le roccette si rivelano grigiobrunastre, a scaglie, intersecate da profonde fessure: i ramponi si inchiodano, si inseriscono a piacere in queste rientranze, in questa roccia ruvida, che potrei salire anche con i soli scarponi rigidi, mi pare. Mi pare solo di voler correre. Sali.

Il primo gradino di roccette è facile da superare, molto semplice. Anzi, semplice e comodo, poiché mentre Federico sale con cautela davanti ai miei occhi, io mi siedo; mi siedo e passo la corda che ci unisce intorno ad uno sperone che sembra progettato appositamente, lasciandola scorrere con precisione, in modo che lui ne senta bene la tensione, la pronta trazione qualora scivolasse o inciampasse. Il sole batte sulle mie mani e sulla testa. Poco oltre, ecco la prima grana: un solo metro... Ma molto esposto sulla sinistra, là ove, più in basso, il ghiacciaio del Colle Gnifetti curva ad incontrare il Grenzgletscher. Neve slavata, poca neve, roccia verticale su cui poggiare i piedi e, al disopra, roccette molto alte; con abbondanza di neve questo tratto non si percepirebbe nemmeno. Sali, sento, guardando in alto. Sali.

Propongo di passare io in testa, semplicemente perché, un po' più alto, dovrei fare un passo meno lungo; Federico però preferisce avermi dietro, così mi risiedo e trovo un altro appiglio per la corda, a mò di bitta per una gomena navale. Passa e riprende a salire. Terrazzino.. Roccette, molto alte sulla destra, ottimi appigli sia per le mani che per la schiena, qualora occorra appoggiarsi un po' mentre l'altro si inerpica. Le picche tintinnano contro la roccia, avremmo dovuto metterle via? I ramponi graffiano, una volta di più, la Zumstein. Una misteriosa maledizione incoglie la mia piccola Canon, il cui display, mentre scatto, diventa bianco. Che le succede? Siamo ora molto in alto, me ne rendo conto: poche roccette ci separano dal colossale pendio meridionale della montagna, ne limitano la vista. Voci, sopra di me: urlo qualcosa di stereotipato come E' fatta, suppongo. Ultima rampa, anzi, canalino nevoso, molto erto e fortunatamente fiancheggiato da roccette aguzze sui due lati: la corda s'impiglia professionalmente, come solo lei sa fare. E' alto due volte me, circa quattro metri, calcolo... Tocca finalmente a me, Fede sparisce in alto. Non gli chiedo nemmeno se posso venire e salgo: obbedisco per l'ultima volta al richiamo e, in pochi istanti, sono in vetta. Sono in vetta. Tutto, ora, diventa scorrevole e fluido, intorno a me. Una vecchia e piccola croce in ferro che sporge, di poco, dalla neve.. Più in là, la sommità vera e propria, neve battuta, due ragazzi che scattano foto verso la tenebrosa sagoma della Dufour. Verso la Gnifetti, un piccolo ballatoio di roccia chiara ed assolata è provvisto di un treppiede metallico.. a sei zampe, sovrastato da una piccola Madonna, o così mi pare nell'accecante riverbero. Rivedo linee geometriche sul ghiacciaio, linee che abbiamo contribuito a tracciare, e la scatola nerissima del rifugio Margherita; siamo in vetta alle 9.25. Tutto scorre, le immagini, le foto saranno per dopo.

Mi gusto, solamente, la consapevolezza eterea ed esterna, aliena al mio essere ed alla mia mente, che arriva da qualche parte, da qualche profonda, sovrannaturale Essenza o Entità annidata in quelle rocce: Ora sai. E quota, dislivello, tempistiche e pacche sulle spalle contano più poco, si sciolgono come neve al sole... Io non vorrei più andarmene, penso, e mi sento un bambino di dieci anni il giorno della partenza da Champoluc, da Chiavari: insensatamente strappato via per altri lunghi mesi di rabbia, nervoso, noia, in un ambiente neutro di cui non sentivo l'appartenenza. E' come un sogno. Tentacoli maliziosi nella mia mente sondano e pungono, s'intrecciano e toccano tasti delicati, trovano facili sponde. Per cosa? Perché andare via? Per i soldi? Per il sesso? Per i viaggi o i tuoi amati libri antichi, per altre montagne? Il Qui ed Ora mi schiaccia, quasi non vedo nemmeno il panorama, tanto non vorrei andarmene. Tu lo sai che, di tutte queste cose, non ne avrai mai abbastanza. Mi siedo, tocco la mia vetta, sento la Sirena: subito piccole gocce d'acqua si trasferiscono sul dorso delle mie mani, scivolano tra le falangi, come carezze di una amante che non voglia essere nuovamente lasciata sola, la mattina presto. E' il compimento di un cammino di tredici mesi.. e quasi non me ne accorgo, tanto non vorrei lasciarla. Il Qui ed Ora mi annichilisce. I tuoi amici? Le ragazze? Tu lo sai, lo hai sempre saputo, c'è una sola persona che ti resterà sempre accanto, e quella sei tu. E tu sei già qui. I ragazzi di prima mi salutano, ci stringiamo le mani, si avviano in discesa, e la loro corda s'impiglia - una costante, parrebbe. Il secondo ride e torna su di un metro a scioglierla. Altri libri da scrivere? Per cosa, poi? Tu conosci o conoscerai le cose che vi saranno scritti, i posti che descriverai. Ti interessa tanto lasciare una traccia di te, provare che sapevi andare in montagna o leggere una carta? Tu sai già le cose che vi descriverai, e tu sei qui. Ora.

Il vento, ed il momento, girano su sé stessi in modo quasi visibile... Fede si rialza, la sua cuffia da snowboard a livello del mio mento, è già sull'imbocco della piccola rampa che conduce in vetta. Mi guarda e comincia a parlare della discesa, vuol fare tutto con calma, con prudenza, preferisce che io stia dietro e lo assicuri alle rocce, come prima.. Il momento gira e sono di nuovo io. Resta, sospira la montagna, la Sirena. Io però me ne vado, assicurando per bene il mio amico, ed in pochi istanti sono scomparso tra le roccette. Mi sento le orecchie in fiamme, è come se avessi fatto qualcosa di malvagio, di vergognoso, e la sorte ci costringe ad aspettare a lungo per dar spazio alle svariate cordate che stanno salendo, prive di ramponi. Così prendo due sassi, uno per me ed uno per Fede, riprendendo con calma a scendere... Me ne vado.

Il resto, miei lettori, lo conoscete già, o lo conoscerete presto anche voi salendo da queste parti. Discesa tranquilla e senza storia al Colle Gnifetti che, con il bel tempo, è il più bel e vasto balcone possibile, per chi ritorna da spazi così angusti: la neve è compatta e dura come cemento, quasi i piedi non lasciano orme, si potrebbero fare capriole quassù. Poco prima di scendere, Federico mi scatta una delle rarissime fotografie in cui io appaia, a mio parere, degno d'essere ripreso: contento, abbronzato, un ghigno piratesco ed il mondo alle spalle, nel vento. Arriviamo alle 10.40 alla Punta Gnifetti, entrando nel rifugio di cui, da almeno mezzora, bramavo il caffé: mi arriva un bicchiere di plastica contenente la mia dose milanese giornaliera!, almeno quattro volte superiore la modesta tazzina cui aspiravo. Nella stanza, poco dopo aver firmato il libro di vetta (ovviando, tra l'altro, ad una dimenticanza dell'agosto 2008) giungono Rudy e clienti, ed il clima diventa immediatamente più allegro; qualcosa o qualcuno, durante gli ultimi facili metri di salita alla Margherita, mi ha lasciato andare. Ricado quindi nei miei soliti tre cliché. Il caldo torrido della sala lignea mi spinge alla fuga, i libri della bella Biblioteca Enrico Detomasi mi attraggono, prima che le montagne mi trascinino, inevitabilmente, sul celebre Balcone Più Alto d'Europa.

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Qui finisce la nostra avventura, perché ormai cosa servirebbe aggiungere che siamo partiti a malincuore alle 11.50, rientrando alle 13.50 al Mantova, alle 16.00 nelle nebbiose vicinanze dei Salati? Potrei forse raccontare come, dopo la London Pride gustata a Stafal, i vostri eroi si siano fermati a Perletoà, struggente e magnifico hameau Walser di Gressoney- Saint- Jean dove, guidati dal suono di un violino, siano stati accolti ad una bellissima festa... Nella bella ed antica casa, manco a dirlo, di Franz Anton Zumstein, parente di quel Joseph al quale venne dedicata la nobile vetta. Potrei narrare di come, incredibilmente giunti proprio in quella casa tra tutte, io abbia casualmente vissuto uno dei più importanti e scioccanti incontri dell'ultimo anno, certo destinato a dare i suoi frutti in futuro... Ma questa sarebbe un'altra, e ben lunga, storia. Potrei forse parlare della mia Sirena, di quanto mi sia costato lasciarla, potrei chiedermi cosa penserò e come ne sentirò il ritorno, nei prossimi anni, quando avrò occasione di risalire quella cresta di neve e roccette.

Forse, però, potrei concludere con un quieto monito: è bene inseguire i propri sogni, poiché sono i soli a rendere una vita degna d'esser stata vissuta... Ma è spesso pericoloso perdersi dietro alle chimere, che siano metà donna e metà pesce, che siano montagne, che siano percezioni ingigantite e distorte dalla nostra mente. La Ragione, in fondo, è tutto quel che abbiamo per restare ben lontani dal baratro di ignoranza, violenza, stupidità e superstizione in cui bruciano ancora le luci di migliaia di roghi, in cui stridono le ruote dell'Inquisizione o s'immolano prigionieri nemici a Tenochtitlàn. In cui Falluja brucia nel fosforo bianco ed il Darfur viene relegato ad un massacro di serie B... Perché, come recitava Omero un tempo, 

A colui che ignaro s'accosta e ascolta la voce delle Sirene,

mai più la moglie e i figli bambini gli sono vicini, felici che a casa è tornato,

ma le Sirene lo incantano con il limpido canto, adagiate sul prato...

 

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