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Piramide Vincent
Magnifica e fiera elevazione di 4215 metri, la Piramide è composta da ampi tratti glaciali e bastionate rocciose, situandosi tra i 4046 metri della Punta Giordani ed i 4088 del Colle Vincent. Si presenta come una sorta di “guardiano” delle molteplici vette retrostanti nel massiccio del Rosa, offre panoramici spettacolari sui “4000” prospicienti e sulle vallate sottostanti. E’ definita “piramide” a causa dei suoi quattro versanti, rispettivamente NO (soprastante al ghiacciaio del Lys), NE (più ripido, soprastante al ghiacciaio delle Piode), S (soprastante al ghiacciaio di Indren) e SO, ben visibile dal rifugio Gnifetti. Numerose sono le vie di salita a questa vetta: qui verrà relazionata la salita di Varasc.it dal dosso Nord, effettuata il 16 aprile 2007 e descritta come F+. E’ doveroso segnalare che la ripetizione di questa ascensione non può prescindere dall’adozione di tecniche ed attrezzature da alpinismo; nel luglio 2010, Varasc.it è tornato in vetta alla Piramide Vincent mentre nel giugno 2013 è salito alla sottostante Punta Giordani. Piramide Vincent. Un po’ di storia Come ogni elevazione del
Rosa, la nostra piramide possiede una storia legata ai primi anni
dell’alpinismo europeo. E’ il 5 agosto 1819, sono passati solo
quattro anni dalla giornata di Waterloo e quattro uomini, provenienti
dal ghiacciaio di Indren, hanno raggiunto la cresta SE che collega la
Giordani alla Vincent: sono il cacciatore di camosci Jacques Castel,
due minatori assoldati per l’impresa e soprattutto l’ingegnere
gressonardo Johann Nicolas Vincent, proprietario di miniere aurifere
nella zona di Indren. Cinque giorni più tardi sale anche il parroco
di Gressoney, Bernfaller, mentre il 12 agosto lo stesso Vincent torna
in vetta insieme a Joseph Zumstein ed ai due minatori. La prima salita
invernale risale invece al 14 febbraio 1885, ad opera di Angelo Mosso
ed Alessandro Sella. Nel 1876 è stata realizzata anche la capanna
Giovanni Gnifetti (3647), così chiamata in onore del celebre parroco
di Alagna; nel 1974 il sottostante rifugio Città di Mantova (3498). Salita alla Piramide Vincent, domenica 15
aprile-lunedì 16 aprile 2007 Già rimandata per avverse condizioni nivometeorologiche ma mai dimenticata, la nostra avventura si è rivelata estremamente soddisfacente e gratificante. Eccone la cronaca. Vai
alla Galleria fotografica - Vai a GPS Sono le 09.13 di domenica ed un bel sole ci
accoglie all’arrivo delle funivie del Gabiet, a circa 2300 metri di
quota (N45° 51.380’, E007° 50.687’): sono sopravvissuto
all’epico viaggio in treno fino a Santhià e siamo partiti dal
parcheggio di Stafal (1815 metri, N45° 51.875’, E007° 49.967’)
sorvolando il torrente Lys ed ammirando alle nostre spalle la ripida
pista proveniente dalla “nostra”
Bettaforca, al modico prezzo di 7.50 Euro. Dalla stazione di
arrivo si gode un imponente panorama delle montagne ayassine, ad
occidente, tra cui la Testa
Grigia, il Rothorn, il Colle
omonimo ed il maestoso monte Bettaforca; il lago Gabiet è
invece celato dalla caratteristica e bellissima Punta omonima (2581).
Siamo nel regno degli sciatori ed in questi casi i pur gloriosi peones
come noi si devono muovere con la debita cautela, valicando piste
ormai macerate dal sole e superando imponenti strutture alberghiere
chiuse. Nessun problema, però: siamo carichi come muletti andini, e
per quanto mi riguarda, da cinque settimane non salgo in montagna. Ho
una vaga idea del percorso che mi aspetta –mutuata dalla pesante
salita del 12 giugno 2006 alla volta della Hochlicht o Altaluce- e non
c’è alcuna fretta. I primi tratti del sentiero 6A avvengono
su una carrabile in ombra, ancora innevata, che sadicamente ci
permette la vista della lontana Vincent e dello stesso Mantova.
Abbiamo sia le ciaspole che i ramponi, ma per tutta l’avventura
calzeremo solo le prime: al momento ci dirigiamo verso i 3202 metri
dello Stolemberg, caratteristico picco a S della Punta Indren (3260),
superando sulla nostra sinistra il vecchio e caratteristico ponticello
arcuato a circa 2425 metri. Continuiamo sulla destra superando anche
l’alpe Lavetz (2453), arroccata sul versante opposto della forra,
tra scialbi nevai ed erba dello scorso anno. Sono le 10.25 quando lo
scenario si amplia permettendoci di raggiungere un ampio fondovalle,
con tanto di diga, casupola e lago ancora ghiacciato: da qui un cavo
sorvola la sponda occidentale del lago correndo verso il nuovo rifugio
Vincent, in costruzione, situato sotto all’erto canale dell’Aquila
nel quale discendono gli scialpinisti. Gli amici Massimiliano e Nicola
approfittano dell’occasione per convincermi che la sua pendenza sia
inferiore a quanto possa sembrare della distanza (mah!); poco oltre,
sulla destra, ecco l’alpe Indren (2533) sotto il Corno del Camoscio
(3026), posto a sua volta a nord del Col d’Olen (2881). E’ un
piacere camminare su questa neve compatta, con questo sole e con
questi panorami grandiosi: alle 10.57 ci ritroviamo nei pressi del
lago Verde, a sua volta gelato (2617 metri circa, N45° 52.223’,
E007° 50.881’) dietro al quale si valica una serie di canaloni ed
avvallamenti perpendicolari alla nostra direzione di marcia e
discendenti dalla nostra sinistra. Sono le 12.55 e sotto un sole fin
troppo espansivo procediamo verso il Colle Salza (3000 metri), che non
toccheremo e che resterà alla nostra sinistra: naturalmente
impieghiamo molto tempo per superarlo, scorgendolo prima come due
speroni rocciosi affiancati, poi come un accenno di rientranza, ed
infine come l’erto e stretto, ombroso valloncello che porta al
colle. Le 14.00 ci vedono al plateau roccioso oltre
al colle, una sorta di ampio balcone affacciato sul gigantesco
“imbuto” del ghiacciaio di Indren e, naturalmente, sulla testata
settentrionale della valle, con le onnipresenti ed ossessionanti
Vincent e Giordani a scrutarci impassibili. La nostra filosofia è
semplice: occorrono quattro ore al rifugio Mantova? Bene, considerando
la nostra situazione –un allenamento non certo himalayano per il
sottoscritto, il carico sulle spalle e soprattutto il 4000 che ci
attende l’indomani- abbiamo democraticamente optato per una salita
tranquilla e misurata in base alle nostre condizioni, con i tempi e le
pause che preferiamo. Stabilire il nuovo record mondiale Gabiet-
Mantova non sarebbe molto sensato, se questo ci costasse poi
l’agognata piramide. E poi, è il mio ultimo giorno di vacanza. Ricordandomi
del mio titolo e ruolo di vivandiere della spedizione scelgo la roccia
che ci ospiterà per il pranzo, cominciando l’assalto alla ricca
dispensa alloggiata nello zaino: in particolare sono lieto di sfoltire
il novero dei robusti panini valdostani che, se impugnati a mò di chopper,
travalicano l’essenza alimentare per assurgere al rango di corpo
contundente ed arma impropria. Mi preoccupo di avvertire i compagni di
spedizione del rischio legale e, pasteggiando con Earl Grey, ci
rilassiamo ammirando sia i due rifugi davanti a noi, sia –sulla
destra e più oltre- il primo pilone della nuova funivia d’Indren,
oltre all’enigmatico Stolemberg. Per tutta la salita porto la corda,
della cui presenza onestamente mi dimentico serenamente finché
Massimiliano o Nicola, sempre cortesi, mi domandano se voglia far
cambio; ci alterniamo a battere traccia seguendo spesso le orme degli
scialpinisti, anche se in prevalenza il ruolo di apripista spetta ai
miei due compagni, più esperti della zona. Alle spalle del
plateau si apre, come anticipato, il vasto “imbuto” circolare che
precede la testata della valle, con i due rifugi e la triade di grandi
ghiacciai –orientale del Lys, del Garstelet, di Indren. So che il
Lys è il secondo ghiacciaio valdostano per estensione, di tipo
vallivo o “himalayano”, diviso in due dal Naso del Lyskamm. Qui ci
eravamo fermati l’anno precedente, e per una volta la fortuna ci
arride: il passo successivo, il temuto “traverso”, risulta
semplice e meno ostico di quanto ricordassi. Si tratta di un percorso
quasi orizzontale in costa, sulla sinistra, che taglia i pendii di
roccia e neve provenienti dalla dorsale settentrionale dell’Alta
Luce: è una zona in cui prestare attenzione alla propria sinistra
(per chi sale), in caso di smottamenti o scariche, mentre sulla destra
l’esposizione è costante. Personalmente non sono suscettibile a
vertigini o particolari sensazioni in merito, ma indubbiamente questo
tratto è sconsigliabile a chi non gradisce troppo la prolungata
presenza di strapiombi e ripidi declivi. Accediamo al
“traverso” alle 14.25, ben rifocillati, in una miriade di tracce
di scialpinisti: si procede in orizzontale a mezza quota, quasi sempre
con lo spazio necessario a due ciaspole affiancate, sempre con i
rifugi e l’incredibile bastione della Vincent davanti agli occhi. Il
Città di Mantova, bontà sua, pare costantemente a pochissima
distanza: in realtà occorre prima ultimare il traverso e curvare
verso destra lungo un ampio semicerchio che ci porta sui dossi
rocciosi –al momento innevati, ovviamente- ai piedi del rifugio.
Questi dossi si risalgono con occasionali pendii più ripidi e tratti
abbastanza dolci, con un sensazionale panorama ad ovest verso il Rifugio
Quintino Sella, la Punta Perazzi (3906) e l’anticima del Monte
Castore Vai
alla Galleria fotografica Siamo accaldati e moderatamente stanchi, le
mie gambe ed i piedi si limitano al loro dovere sabaudo mentre le
spalle vengono segate dallo zaino: la sete è grande, il riverbero
intenso, il rifugio è sempre a due passi. Il trucco, in questi
casi, consiste nel lasciare libera la mente e seguirne i voli sempre
più irrazionali per distrarsi dalla fatica e dal peso del sacco: in
questo modo accedo al rifugio Mantova dal lato destro, passando per un
ultimo pendio singolarmente erto, così laborioso da permettermi di
contare in centimetri ogni innalzamento del palo della bandiera. Sono
le 16.10 e ci troviamo a 3498 metri, N45° 53.721’, E007°
50.886’, sull’estrema propaggine del ghiacciaio di Garstelet, tra
i ghiacciai del Lys e di Indren. Il rifugio si presenta come una
singola costruzione in pietra di tre piani, con un’ampia sala da
pranzo al pianterreno ed una piccola, panoramicissima terrazza in
legno sul davanti, dominante la valle del Lys, l’alta Valsesia e
tutte le vette ayassine di una certa rilevanza, dalle lontanissime
“becche” e Mont Nery al Testa
Grigia, al Corno
Bussola, lo Zerbion
e la Becca
di Nana (Falconetta), i due Tournalin e la Becca
Trecare più indietro, la Roisettaz, salendo fino a tutta la
cresta del Sella. Infinitamente lontano ma presente fino all’ora di
cena, il Monviso; a SE, la pianura da cui siamo saliti, a N il
Gnifetti sulla sua piccola dorsale rocciosa e la Vincent. Dedicato
a quattro alpinisti mantovani, deceduti sul Rosa nel 1978, il rifugio
Mantova (di proprietà del CAI omonimo) dispone di 91 posti letto e di
15 nell’invernale, che è poi il vestibolo dal quale si accede alla
sala da pranzo. Il numero di telefono è 0165 936143, il gestore è R.
Ganis di Brusson (Ayas), 0125 300424. Il Mantova, più moderno del “collega”
soprastante, ha interni forse meno spaziosi del Quintino Sella –per
esempio- ma puliti, perlinati e ben riscaldati. Le camere –abbiamo
alloggiato nella numero 1- hanno la classica conformazione con 4 più
4 letti a castello e sono generalmente ben oscurate di notte, a
differenza di altri rifugi. Per nostra sfortuna abbiamo trovato lavori
in corso nella casupola dei bagni, a pochi metri di distanza dal
rifugio, sulla sinistra: una sola toilette agibile, niente acqua
corrente nei lavandini (incredibilmente sporchi) o nella suddetta
toilette, bombole di gas ed un secchio d’acqua saponata per ripulire
il bagno, il cui scarico –peggio di tutto- dà proprio sul nevaio ai
piedi della struttura, con il disgustoso effetto che si può
immaginare. Nessuno si aspetta di trovare una piccola Versailles a
simili quote, ed il rifugio in sé era –ripeto- pulito ed ordinato,
ma trascorrere due giorni senza potersi nemmeno lavare le mani riesce
alquanto antipatico. Lavarsi le mani prima di cenare è quel che
distingue l’uomo civilizzato dalla barbarie, commento seccato
prendendo il sole sulla terrazza, rassicurato da due alpinisti di
Nizza sul fatto che in Francia i rifugi siano “anche peggio”. E
comunque, la spesa per la mezza pensione non subirà alcuna riduzione
nonostante la vergognosa condizione dei bagni e l’assenza d’acqua:
meglio svagarsi insieme ai due cordiali francesi indagando sulle
probabilità di vittoria di Sarkò e sui motivi dell’incremento
elettorale di Le Pen. I signori si informano sui problemi
dell’immigrazione nelle maggiori città italiane, viro sul caso Abu
Omar e da lì imbastiamo una bella chiacchierata sociopolitica a quasi
3500 metri d’altezza. Ceniamo alle 19.00: primo piatto, pasta
al sugo di pomodoro, secondo, scelta tra puré e spezzatino o puré e
formaggio. Opto per la seconda scelta e ricevo una semplice fetta di
fontina, ma in fondo non sono qui per abbuffarmi, e come restare fermi
a tavola quando mi si offre il duplice spettacolo del Monviso,
lontanissimo, e di Massimiliano reso paonazzo dal sole, più vicino? Secondo giorno. Lunedì 16 aprile Le quattro di mattina! La noia mortale non mi lascia andare: per tutta la notte, o solo per pochi minuti –come saperlo?- ho dovuto ricorrere a qualsiasi cosa, pur di risalire la china di questa interminabile perdita di tempo. Ho ricostruito le trame del Conte di Montecristo (nella versione cinematografica, questa volta, e con Depardieu, certo non con Brosnan!) e di Heart of Darkness di Conrad, inquinata da continue incursioni di Brando e Martin Sheen da Apocalypse Now. Alle quattro e trenta decido di averne abbastanza e, ignorando che la sveglia sia alle 04.45 e la colazione alle 05.00, comincio a ripiegare le coperte al buio in un miracolo di silenzio e manualità alla cieca, per non disturbare. Alta organizzazione piemontese: ho sistemato tutto in modo da dover solo prendere il sacco lenzuolo e lo zaino, chiudermi la porta alle spalle e ritrovarmi in corridoio, dove posso rivestirmi con calma. Mi basta allungare il braccio e trovo occhiali, GPS, ciabatte. Le scale che portano alla sala da pranzo sono più ripide di qualsiasi pendio che incontreremo oggi, buie e strette come il pozzetto della Victory la sera di Trafalgar. Mi ritrovo solo, al buio, nella sala deserta: il gestore canticchia nel suo spazio chiuso da serrande preparando i thermos di tè. Esco alla volta dei bagni: fa caldo!, si può restare con il solo pile e senza giacca, ma il ghiaccio mi convince a tornare sui miei passi: è stupido calzare ciabatte in luogo di solidi ramponi. Il panorama però è magnifico: le luci del Gnifetti, lo scintillio del Gabiet e della valle del Lys, un’immensa pozza di luce ad oriente che può essere una grande città come Novara, o forse addirittura Milano.. Aerei in quota, un cielo nero e senza vento, neve opalescente. Sono il primo ad essere servito per colazione, Massi e Nicola ancora non si vedono: mi spiace d’essermi seduto a tavola senza di loro e così inganno il tempo preparando tartine di marmellata per tutti. Se uno od entrambi non gradiranno, temo che dovrò mangiare per mezzora, ed io non faccio colazione dall’epoca delle scuole medie. Mi sento pronto a partire, addirittura
impaziente come uno scolaretto la mattina di Natale: i miei compagni
di cordata stanno bene, la colazione si difende valorosamente ma viene
presto sterminata, ci prepariamo alla partenza. Considerando che
dovrei trovarmi a Milano in procinto di iniziare i primi corsi del
nuovo trimestre universitario, non ho certo di che lamentarmi: penso
ai tornelli della metropolitana, a San Babila, Corso Europa e
sogghigno. La nostra strategia è semplice: lasceremo uno zaino
nell’invernale con tutti i pesi non necessari –sacchi lenzuolo,
panini e viveri avanzati, bastoni- e porteremo con noi i due sacchi
rimanenti, con ben quattro thermos appena riempiti di tè e la mia
scorta di barrette al cioccolato. Massi e Nicola dedicano molta cura
ai preparativi per la cordata: nodi a palla lungo la corda per
incastrarsi nella neve in caso di caduta, prusik e cordini in
kevlar per collegarci alla corda stessa, una festa di moschettoni,
rinvii e piastre a bandoliera lungo gli imbraghi. Saliremo con le sole
picche, niente bastoni da sci o da trekking.. E niente frontali!,
ormai, si vede benissimo. Useremo le ciaspole finché sarà possibile,
poi calzeremo i ramponi. Partiamo solo alle 06.13, fedeli alla teoria
del non affaticarci inutilmente. Sono il secondo della cordata, al
momento aperta da Massimiliano, contraddistinto dalla sua giacca
arancione e dal monumentale armamentario fotografico. Io non sono da
meno, con una piccola digitale, la gloriosa Zeiss- Ikon e, alla sua
prima uscita, il GPS60, ben protetto nella custodia scovata nientemeno
che al Decathlon di Cairoli, a Milano. Saliamo con passo costante sul
ghiacciaio descrivendo un’ampia curva verso destra, salendo fino
alle roccette che costituiscono l’estremo baluardo del Garstelet:
qui torniamo a piegare verso sinistra puntando verso il Gnifetti,
simile ad un forte o al castello di un daimyo del Giappone
medievale, arroccato sulla sua cresta rocciosa con il grande picco
sulla destra. Alle 07.06 siamo esattamente alla sua altezza, sulla
destra: il rifugio è ora nascosto dallo spuntone di roccia nera ed
abbiamo così valicato il primo, facile “gradino” verso la Vincent.
Alla nostra sinistra estrema scorgiamo il Monte
Castore Scendiamo alle 10.55, con un ancoraggio nel primissimo tratto per superare l’accoppiata ghiaccio vivo / pendenza eccessiva per le ciaspole, ripercorrendo i pendii inferiori della Vincent fino al colle e di nuovo giù per il gradino. Alle 12.30 doppiamo il rifugio Gnifetti, alle 12.45 siamo di nuovo al Mantova, sudati ed accaldati: il ghiacciaio è un forno a microonde, il caldo che sale dal basso è irrazionalmente più forte, il pile mi tortura. Temo per la piccola e coraggiosa digitale nella tasca. Il mio primo atto al rifugio è di acquistare una bottiglia di minerale, prima di prendermi una bella pausa su una panca in ombra accanto all’ingresso. Il costo della nostra mezza pensione è di 160 Euro complessivi, forse troppi considerando il già citato problema dei servizi igienici: alle 14.10 partiamo, incontrando però molta neve marcia dai 2900 metri in poi. Riprendiamo la strada dell’andata fino al Gabiet: non esito a riconoscere che il rientro dal Mantova è stato complessivamente più difficile, pesante e snervante di tutta la salita!, con tanto di sprofondamenti in piccole voragini che hanno richiesto l’uso della pala per liberare la ciaspola, sole incessante, impossibilità di allungare il passo, spreco continuo di energie per uscire dai buchi nella neve. Il traverso dell’andata si rivela percorso da inquietanti scie di blocchi di neve e ghiaccio caduti dall’alto: il tè finisce, mi riduco a trangugiare neve!, perfino il tratto precedente alle piste del Gabiet si ostina a farci sprofondare nella neve fino alle ginocchia. Al Gabiet ci accoglie un cane ed il deserto, le funivie sono chiuse di lunedì. Non possiamo nemmeno posare lo zaino per un minuto, le piste sono un coacervo di neve marcia e terra percorso dai cingoli dei gatti: prendiamo una pista molto ripida, prospiciente alla Bettaforca, schizzando fanghiglia ad altezza d’uomo, gli scarponi ormai fradici d’acqua sporca. Sono le 19.20 quando sbuchiamo a Stafal, nel cui parcheggio campeggia una sola vettura: mai essere umano fu più lieto nel rivedere una Golf. Le ore di discesa mi hanno snervato: non è montagna questa!, non sono sentieri, solo ripidi e squallidi tagli tra boschi e sfasciumi. Non pronuncio parola e cerco solo di non risultare ulteriormente pesante, a mia volta, per i miei compagni di cordata che certo non hanno colpa della situazione. Vai
alla Galleria fotografica Avvolti dalla solita orgia di moscerini, una
volta imbarcate armi e bagagli decidiamo di fermarci in un locale a
monte del parcheggio di Stafal, la cui proprietaria ci accoglie con
uno sguardo che rispecchia la nostra condizione: mi vedo per come mi
guarda, semidistrutto, assetato, scarmigliato. Non mi lavo da due
giorni e non ho rasato la barba. Cammino in scarpe da ginnastica con
lo stile di uno yeti. Sono ustionato nello stile de Incontri
ravvicinati (ma su tutto il volto) e probabilmente è per pietà
che Massimiliano spiega alla signora la nostra avventura, per sommi
capi: intanto optiamo per due birrette ed una aranciata, facendo
entrare nella storia –così come la “canzone del Breithorn”
resterà per sempre Pictures of You dei Cure- l’ormai
immortale “birra della Vincent”, la rossa London Pride. Della
Vincent resta un senso di stupore e meraviglia, un rullino ed una
scheda di fotografie troppo belle per essere vere, un vagone di
ricordi e la consapevolezza di aver portato a casa una bella
avventura. E le risate di mezzo migliaio di ragazzi e ragazze a
Milano, in facoltà, per l’aspetto eccessivamente “lampadato”
della mia faccia. In sintesi, una bella e gratificante salita,
con pochi appunti: attenzione al ritorno ed alla neve troppo molle,
attenzione all’evoluzione del ghiacciaio con questi crepacci già
aperti o quasi aperti ad aprile, e –come sempre- molta prudenza ad
ogni passo. |