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Piramide Vincent 

Magnifica e fiera elevazione di 4215 metri, la Piramide è composta da ampi tratti glaciali e bastionate rocciose, situandosi tra i 4046 metri della Punta Giordani ed i 4088 del Colle Vincent. Si presenta come una sorta di “guardiano” delle molteplici vette retrostanti nel massiccio del Rosa, offre panoramici spettacolari sui “4000” prospicienti e sulle vallate sottostanti. E’ definita “piramide” a causa dei suoi quattro versanti, rispettivamente NO (soprastante al ghiacciaio del Lys), NE (più ripido, soprastante al ghiacciaio delle Piode), S (soprastante al ghiacciaio di Indren) e SO, ben visibile dal rifugio Gnifetti. Numerose sono le vie di salita a questa vetta: qui verrà relazionata la salita di Varasc.it dal dosso Nord, effettuata il 16 aprile 2007 e descritta come F+. E’ doveroso segnalare che la ripetizione di questa ascensione non può prescindere dall’adozione di tecniche ed attrezzature da alpinismo; nel luglio 2010, Varasc.it è tornato in vetta alla Piramide Vincent mentre nel giugno 2013 è salito alla sottostante Punta Giordani.

Piramide Vincent. Un po’ di storia 

Come ogni elevazione del Rosa, la nostra piramide possiede una storia legata ai primi anni dell’alpinismo europeo. E’ il 5 agosto 1819, sono passati solo quattro anni dalla giornata di Waterloo e quattro uomini, provenienti dal ghiacciaio di Indren, hanno raggiunto la cresta SE che collega la Giordani alla Vincent: sono il cacciatore di camosci Jacques Castel, due minatori assoldati per l’impresa e soprattutto l’ingegnere gressonardo Johann Nicolas Vincent, proprietario di miniere aurifere nella zona di Indren. Cinque giorni più tardi sale anche il parroco di Gressoney, Bernfaller, mentre il 12 agosto lo stesso Vincent torna in vetta insieme a Joseph Zumstein ed ai due minatori. La prima salita invernale risale invece al 14 febbraio 1885, ad opera di Angelo Mosso ed Alessandro Sella. Nel 1876 è stata realizzata anche la capanna Giovanni Gnifetti (3647), così chiamata in onore del celebre parroco di Alagna; nel 1974 il sottostante rifugio Città di Mantova (3498). 

Salita alla Piramide Vincent, domenica 15 aprile-lunedì 16 aprile 2007 

Già rimandata per avverse condizioni nivometeorologiche ma mai dimenticata, la nostra avventura si è rivelata estremamente soddisfacente e gratificante. Eccone la cronaca.

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Sono le 09.13 di domenica ed un bel sole ci accoglie all’arrivo delle funivie del Gabiet, a circa 2300 metri di quota (N45° 51.380’, E007° 50.687’): sono sopravvissuto all’epico viaggio in treno fino a Santhià e siamo partiti dal parcheggio di Stafal (1815 metri, N45° 51.875’, E007° 49.967’) sorvolando il torrente Lys ed ammirando alle nostre spalle la ripida pista proveniente dalla “nostra” Bettaforca, al modico prezzo di 7.50 Euro. Dalla stazione di arrivo si gode un imponente panorama delle montagne ayassine, ad occidente, tra cui la Testa Grigia, il Rothorn, il Colle omonimo ed il maestoso monte Bettaforca; il lago Gabiet è invece celato dalla caratteristica e bellissima Punta omonima (2581). Siamo nel regno degli sciatori ed in questi casi i pur gloriosi peones come noi si devono muovere con la debita cautela, valicando piste ormai macerate dal sole e superando imponenti strutture alberghiere chiuse. Nessun problema, però: siamo carichi come muletti andini, e per quanto mi riguarda, da cinque settimane non salgo in montagna. Ho una vaga idea del percorso che mi aspetta –mutuata dalla pesante salita del 12 giugno 2006 alla volta della Hochlicht o Altaluce- e non c’è alcuna fretta. I primi tratti del sentiero 6A avvengono su una carrabile in ombra, ancora innevata, che sadicamente ci permette la vista della lontana Vincent e dello stesso Mantova. Abbiamo sia le ciaspole che i ramponi, ma per tutta l’avventura calzeremo solo le prime: al momento ci dirigiamo verso i 3202 metri dello Stolemberg, caratteristico picco a S della Punta Indren (3260), superando sulla nostra sinistra il vecchio e caratteristico ponticello arcuato a circa 2425 metri. Continuiamo sulla destra superando anche l’alpe Lavetz (2453), arroccata sul versante opposto della forra, tra scialbi nevai ed erba dello scorso anno. Sono le 10.25 quando lo scenario si amplia permettendoci di raggiungere un ampio fondovalle, con tanto di diga, casupola e lago ancora ghiacciato: da qui un cavo sorvola la sponda occidentale del lago correndo verso il nuovo rifugio Vincent, in costruzione, situato sotto all’erto canale dell’Aquila nel quale discendono gli scialpinisti. Gli amici Massimiliano e Nicola approfittano dell’occasione per convincermi che la sua pendenza sia inferiore a quanto possa sembrare della distanza (mah!); poco oltre, sulla destra, ecco l’alpe Indren (2533) sotto il Corno del Camoscio (3026), posto a sua volta a nord del Col d’Olen (2881). E’ un piacere camminare su questa neve compatta, con questo sole e con questi panorami grandiosi: alle 10.57 ci ritroviamo nei pressi del lago Verde, a sua volta gelato (2617 metri circa, N45° 52.223’, E007° 50.881’) dietro al quale si valica una serie di canaloni ed avvallamenti perpendicolari alla nostra direzione di marcia e discendenti dalla nostra sinistra. Sono le 12.55 e sotto un sole fin troppo espansivo procediamo verso il Colle Salza (3000 metri), che non toccheremo e che resterà alla nostra sinistra: naturalmente impieghiamo molto tempo per superarlo, scorgendolo prima come due speroni rocciosi affiancati, poi come un accenno di rientranza, ed infine come l’erto e stretto, ombroso valloncello che porta al colle.

Le 14.00 ci vedono al plateau roccioso oltre al colle, una sorta di ampio balcone affacciato sul gigantesco “imbuto” del ghiacciaio di Indren e, naturalmente, sulla testata settentrionale della valle, con le onnipresenti ed ossessionanti Vincent e Giordani a scrutarci impassibili. La nostra filosofia è semplice: occorrono quattro ore al rifugio Mantova? Bene, considerando la nostra situazione –un allenamento non certo himalayano per il sottoscritto, il carico sulle spalle e soprattutto il 4000 che ci attende l’indomani- abbiamo democraticamente optato per una salita tranquilla e misurata in base alle nostre condizioni, con i tempi e le pause che preferiamo. Stabilire il nuovo record mondiale Gabiet- Mantova non sarebbe molto sensato, se questo ci costasse poi l’agognata piramide. E poi, è il mio ultimo giorno di vacanza. Ricordandomi del mio titolo e ruolo di vivandiere della spedizione scelgo la roccia che ci ospiterà per il pranzo, cominciando l’assalto alla ricca dispensa alloggiata nello zaino: in particolare sono lieto di sfoltire il novero dei robusti panini valdostani che, se impugnati a mò di chopper, travalicano l’essenza alimentare per assurgere al rango di corpo contundente ed arma impropria. Mi preoccupo di avvertire i compagni di spedizione del rischio legale e, pasteggiando con Earl Grey, ci rilassiamo ammirando sia i due rifugi davanti a noi, sia –sulla destra e più oltre- il primo pilone della nuova funivia d’Indren, oltre all’enigmatico Stolemberg. Per tutta la salita porto la corda, della cui presenza onestamente mi dimentico serenamente finché Massimiliano o Nicola, sempre cortesi, mi domandano se voglia far cambio; ci alterniamo a battere traccia seguendo spesso le orme degli scialpinisti, anche se in prevalenza il ruolo di apripista spetta ai miei due compagni, più esperti della zona. Alle spalle del plateau si apre, come anticipato, il vasto “imbuto” circolare che precede la testata della valle, con i due rifugi e la triade di grandi ghiacciai –orientale del Lys, del Garstelet, di Indren. So che il Lys è il secondo ghiacciaio valdostano per estensione, di tipo vallivo o “himalayano”, diviso in due dal Naso del Lyskamm. Qui ci eravamo fermati l’anno precedente, e per una volta la fortuna ci arride: il passo successivo, il temuto “traverso”, risulta semplice e meno ostico di quanto ricordassi. Si tratta di un percorso quasi orizzontale in costa, sulla sinistra, che taglia i pendii di roccia e neve provenienti dalla dorsale settentrionale dell’Alta Luce: è una zona in cui prestare attenzione alla propria sinistra (per chi sale), in caso di smottamenti o scariche, mentre sulla destra l’esposizione è costante. Personalmente non sono suscettibile a vertigini o particolari sensazioni in merito, ma indubbiamente questo tratto è sconsigliabile a chi non gradisce troppo la prolungata presenza di strapiombi e ripidi declivi. Accediamo al “traverso” alle 14.25, ben rifocillati, in una miriade di tracce di scialpinisti: si procede in orizzontale a mezza quota, quasi sempre con lo spazio necessario a due ciaspole affiancate, sempre con i rifugi e l’incredibile bastione della Vincent davanti agli occhi. Il Città di Mantova, bontà sua, pare costantemente a pochissima distanza: in realtà occorre prima ultimare il traverso e curvare verso destra lungo un ampio semicerchio che ci porta sui dossi rocciosi –al momento innevati, ovviamente- ai piedi del rifugio. Questi dossi si risalgono con occasionali pendii più ripidi e tratti abbastanza dolci, con un sensazionale panorama ad ovest verso il Rifugio Quintino Sella, la Punta Perazzi (3906) e l’anticima del Monte Castore , ovvero la Punta Felik, 4088.

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Siamo accaldati e moderatamente stanchi, le mie gambe ed i piedi si limitano al loro dovere sabaudo mentre le spalle vengono segate dallo zaino: la sete è grande, il riverbero intenso, il rifugio è sempre a due passi. Il trucco, in questi casi, consiste nel lasciare libera la mente e seguirne i voli sempre più irrazionali per distrarsi dalla fatica e dal peso del sacco: in questo modo accedo al rifugio Mantova dal lato destro, passando per un ultimo pendio singolarmente erto, così laborioso da permettermi di contare in centimetri ogni innalzamento del palo della bandiera. Sono le 16.10 e ci troviamo a 3498 metri, N45° 53.721’, E007° 50.886’, sull’estrema propaggine del ghiacciaio di Garstelet, tra i ghiacciai del Lys e di Indren. Il rifugio si presenta come una singola costruzione in pietra di tre piani, con un’ampia sala da pranzo al pianterreno ed una piccola, panoramicissima terrazza in legno sul davanti, dominante la valle del Lys, l’alta Valsesia e tutte le vette ayassine di una certa rilevanza, dalle lontanissime “becche” e Mont Nery al Testa Grigia, al Corno Bussola, lo Zerbion e la Becca di Nana (Falconetta), i due Tournalin e la Becca Trecare più indietro, la Roisettaz, salendo fino a tutta la cresta del Sella. Infinitamente lontano ma presente fino all’ora di cena, il Monviso; a SE, la pianura da cui siamo saliti, a N il Gnifetti sulla sua piccola dorsale rocciosa e la Vincent. Dedicato a quattro alpinisti mantovani, deceduti sul Rosa nel 1978, il rifugio Mantova (di proprietà del CAI omonimo) dispone di 91 posti letto e di 15 nell’invernale, che è poi il vestibolo dal quale si accede alla sala da pranzo. Il numero di telefono è 0165 936143, il gestore è R. Ganis di Brusson (Ayas), 0125 300424.

Il Mantova, più moderno del “collega” soprastante, ha interni forse meno spaziosi del Quintino Sella –per esempio- ma puliti, perlinati e ben riscaldati. Le camere –abbiamo alloggiato nella numero 1- hanno la classica conformazione con 4 più 4 letti a castello e sono generalmente ben oscurate di notte, a differenza di altri rifugi. Per nostra sfortuna abbiamo trovato lavori in corso nella casupola dei bagni, a pochi metri di distanza dal rifugio, sulla sinistra: una sola toilette agibile, niente acqua corrente nei lavandini (incredibilmente sporchi) o nella suddetta toilette, bombole di gas ed un secchio d’acqua saponata per ripulire il bagno, il cui scarico –peggio di tutto- dà proprio sul nevaio ai piedi della struttura, con il disgustoso effetto che si può immaginare. Nessuno si aspetta di trovare una piccola Versailles a simili quote, ed il rifugio in sé era –ripeto- pulito ed ordinato, ma trascorrere due giorni senza potersi nemmeno lavare le mani riesce alquanto antipatico. Lavarsi le mani prima di cenare è quel che distingue l’uomo civilizzato dalla barbarie, commento seccato prendendo il sole sulla terrazza, rassicurato da due alpinisti di Nizza sul fatto che in Francia i rifugi siano “anche peggio”. E comunque, la spesa per la mezza pensione non subirà alcuna riduzione nonostante la vergognosa condizione dei bagni e l’assenza d’acqua: meglio svagarsi insieme ai due cordiali francesi indagando sulle probabilità di vittoria di Sarkò e sui motivi dell’incremento elettorale di Le Pen. I signori si informano sui problemi dell’immigrazione nelle maggiori città italiane, viro sul caso Abu Omar e da lì imbastiamo una bella chiacchierata sociopolitica a quasi 3500 metri d’altezza. Ceniamo alle 19.00: primo piatto, pasta al sugo di pomodoro, secondo, scelta tra puré e spezzatino o puré e formaggio. Opto per la seconda scelta e ricevo una semplice fetta di fontina, ma in fondo non sono qui per abbuffarmi, e come restare fermi a tavola quando mi si offre il duplice spettacolo del Monviso, lontanissimo, e di Massimiliano reso paonazzo dal sole, più vicino? Sono ospiti del rifugio alcuni francesi, molti tedeschi ed una brigata di canadesi, pochissimi italiani: tutti scialpinisti, come dimostra la selva di sci e bastoni all’esterno. Alle 19.58 ci si ritrova tutti in terrazza per immortalare un tramonto sensazionale e l’ultimo, repentino bagliore che rende il Quintino Sella simile all’ultimo cubetto antistante un’esplosione nucleare. Non fa assolutamente freddo ma il breve tragitto per il bagno è reso avventuroso dal ghiaccio e dal fatto che tutti indossiamo delle vecchie ciabatte da rifugio: dalla piccola coda in attesa si alzano commenti sfavorevoli in più lingue, e per mia sfortuna –in quanto italiano, cerco sempre di far fare bella figura al mio Paese- li comprendo benissimo tutti. Cedo il passo alle signore, almeno qualcosa la salveremo. Mi ritrovo a letto, nel caratteristico “loculo” da rifugio: dormiremo sotto perché dovremo partire prima, non vogliamo svegliare i tedeschi che, ad ogni modo, entreranno in camera verso le ventidue facendo tutto il chiasso possibile. Non soffro mai la quota o la mancanza del mio letto, in rifugio: anzi, qui posso dormire allungando comodamente le gambe!, a differenza di casa dove le maledette sponde mi obbligano a contorte geometrie perfino nel sonno. La stanza è buia e calda, malgrado la finestra aperta. Mi rilasso, riposto le gambe e le spalle, lascio libera la mente e trascorrono ore, secoli, infiniti spazi senza tempo: eoni più tardi chiedo a Massimiliano l’ora, restando annichilito dalla risposta –le 23.08. Di questa notte ricorderò l’assenza totale di sonno e la noia mortale, anche se mi diranno poi d’avermi sentito russare –io però non ricordo d’aver dormito. 

Secondo giorno. Lunedì 16 aprile 

Le quattro di mattina! La noia mortale non mi lascia andare: per tutta la notte, o solo per pochi minuti –come saperlo?- ho dovuto ricorrere a qualsiasi cosa, pur di risalire la china di questa interminabile perdita di tempo. Ho ricostruito le trame del Conte di Montecristo (nella versione cinematografica, questa volta, e con Depardieu, certo non con Brosnan!) e di Heart of Darkness di Conrad, inquinata da continue incursioni di Brando e Martin Sheen da Apocalypse Now. Alle quattro e trenta decido di averne abbastanza e, ignorando che la sveglia sia alle 04.45 e la colazione alle 05.00, comincio a ripiegare le coperte al buio in un miracolo di silenzio e manualità alla cieca, per non disturbare. Alta organizzazione piemontese: ho sistemato tutto in modo da dover solo prendere il sacco lenzuolo e lo zaino, chiudermi la porta alle spalle e ritrovarmi in corridoio, dove posso rivestirmi con calma. Mi basta allungare il braccio e trovo occhiali, GPS, ciabatte. Le scale che portano alla sala da pranzo sono più ripide di qualsiasi pendio che incontreremo oggi, buie e strette come il pozzetto della Victory la sera di Trafalgar. Mi ritrovo solo, al buio, nella sala deserta: il gestore canticchia nel suo spazio chiuso da serrande preparando i thermos di tè. Esco alla volta dei bagni: fa caldo!, si può restare con il solo pile e senza giacca, ma il ghiaccio mi convince a tornare sui miei passi: è stupido calzare ciabatte in luogo di solidi ramponi. Il panorama però è magnifico: le luci del Gnifetti, lo scintillio del Gabiet e della valle del Lys, un’immensa pozza di luce ad oriente che può essere una grande città come Novara, o forse addirittura Milano.. Aerei in quota, un cielo nero e senza vento, neve opalescente. Sono il primo ad essere servito per colazione, Massi e Nicola ancora non si vedono: mi spiace d’essermi seduto a tavola senza di loro e così inganno il tempo preparando tartine di marmellata per tutti. Se uno od entrambi non gradiranno, temo che dovrò mangiare per mezzora, ed io non faccio colazione dall’epoca delle scuole medie.

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Mi sento pronto a partire, addirittura impaziente come uno scolaretto la mattina di Natale: i miei compagni di cordata stanno bene, la colazione si difende valorosamente ma viene presto sterminata, ci prepariamo alla partenza. Considerando che dovrei trovarmi a Milano in procinto di iniziare i primi corsi del nuovo trimestre universitario, non ho certo di che lamentarmi: penso ai tornelli della metropolitana, a San Babila, Corso Europa e sogghigno. La nostra strategia è semplice: lasceremo uno zaino nell’invernale con tutti i pesi non necessari –sacchi lenzuolo, panini e viveri avanzati, bastoni- e porteremo con noi i due sacchi rimanenti, con ben quattro thermos appena riempiti di tè e la mia scorta di barrette al cioccolato. Massi e Nicola dedicano molta cura ai preparativi per la cordata: nodi a palla lungo la corda per incastrarsi nella neve in caso di caduta, prusik e cordini in kevlar per collegarci alla corda stessa, una festa di moschettoni, rinvii e piastre a bandoliera lungo gli imbraghi. Saliremo con le sole picche, niente bastoni da sci o da trekking.. E niente frontali!, ormai, si vede benissimo. Useremo le ciaspole finché sarà possibile, poi calzeremo i ramponi. Partiamo solo alle 06.13, fedeli alla teoria del non affaticarci inutilmente. Sono il secondo della cordata, al momento aperta da Massimiliano, contraddistinto dalla sua giacca arancione e dal monumentale armamentario fotografico. Io non sono da meno, con una piccola digitale, la gloriosa Zeiss- Ikon e, alla sua prima uscita, il GPS60, ben protetto nella custodia scovata nientemeno che al Decathlon di Cairoli, a Milano. Saliamo con passo costante sul ghiacciaio descrivendo un’ampia curva verso destra, salendo fino alle roccette che costituiscono l’estremo baluardo del Garstelet: qui torniamo a piegare verso sinistra puntando verso il Gnifetti, simile ad un forte o al castello di un daimyo del Giappone medievale, arroccato sulla sua cresta rocciosa con il grande picco sulla destra. Alle 07.06 siamo esattamente alla sua altezza, sulla destra: il rifugio è ora nascosto dallo spuntone di roccia nera ed abbiamo così valicato il primo, facile “gradino” verso la Vincent. Alla nostra sinistra estrema scorgiamo il Monte Castore , la Perazzi; più avanti, ancora poco visibili, il Naso e l’orientale dei Lyskamm. Alle nostre spalle il Mantova è invisibile e si scorgono solo poche vette di Ayas e Gressoney, biancheggianti nella penombra; restano poche stelle ma c’è già molta luce, la Vincent torreggia alla nostra destra, simile ad un gigante che butti le braccia conserte sul bancone di un immenso bar. Un bel tratto pianeggiante ci permette di riprendere un buon passo, cedendolo più avanti ad una cordata di sette scialpinisti canadesi: cattiva idea, noteremo più avanti, ci rallenteranno. Ma li salutiamo uno ad uno, perché a casa loro possano raccontare che gli italiani sono persone educate, anche in un contesto certo non urbano. Accediamo al secondo “gradino”, in realtà un tratto ben più lungo e composto da differenti rialzi, sempre sull’ampio ghiacciaio: qui la pendenza resta costante e serve qualche sosta contemplativa. Il vento s’incanala dalle vette antistanti frustandoci con freddo pungente e pulviscolo nel collo, negli occhi, in bocca: difficile rendersene conto mentre si cammina piegati in avanti con un cappuccio sugli occhi (e la mano sul GPS, nel mio caso), ma stiamo compiendo una sorta di curva intorno alla Vincent per prenderla alle spalle, da nord, più avanti e più in alto. I pendii alla fine si addolciscono, non prima di averci costretti a valicare un immenso crepaccio, giù aperto ad aprile: un colpo d’accetta piegato a mò di scimitarra nella neve, orli slabbrati e lati composti da assurdi spessori di neve, all’interno del quale si potrebbe calare un TIR o qualche container. Nicola scandisce Avanti, avanti, usciamo da qui mentre passiamo uno alla volta sul ponte di neve, la corda ben tesa e la picca pronta, senza patemi vari –non ho fatto nulla che possa infastidire questo crepaccio, non vedo perché lui debba importunare me. I pendii più dolci ci portano sulla destra proprio sotto allo sperone (visto da quaggiù) del Balmenhorn, 4167: siamo giunti all’ampio colle Vincent (4088), varco tra la piramide ed il Corno Nero (4322) dal quale entra, gradito, il sole nascente. Anche il vento decide di andare a tormentare qualche altro povero viandante e brindiamo con il scialbo tè al limone del rifugio, ben diverso –penso tristemente- dal mio Earl Grey. Arrivando al colle abbiamo girato intorno allo spigolo NO della Vincent, raggiungendo i pendii settentrionali, più morbidi. La metà della salita si rivela morbida, semplici pendii di neve compatta (nelle prime ore mattutine) che risaliamo a zig- zag, tenendoci alla larga dalla nostra sinistra per evitare eventuali cornici di neve. Incontro una mosca semicongelata nella neve, solo una dei numerosi insetti visti avanti ed indietro per il ghiacciaio –e poi l’Effetto Serra è un’invenzione dei democratici statunitensi. Fa fin troppo caldo ma l’ultimo tratto diviene più ripido e non possiamo fermarci per togliere le giacche: superiamo crepacci ancora chiusi, vaste linee più scure della neve circostante che vanno tenute d’occhio. Pochi metri sotto l’orlo sommitale incontriamo alcune diverse chiazze di ghiaccio di rifusione, dove le ciaspole –già piegate ad angolo con grave sforzo per le caviglie- non fanno presa. Occorre pestare robuste pedale al pendio sfruttando l’ampio rampone in punta alla ciaspola, anche la picca entra di pochi centimetri: Nicola è il primo, aspetto che Massimiliano finisca la curva alle mie spalle liberando la corda e mi ritrovo anch’io sull’anticima. Sono le 10.00 in punto ed immergo la picca fino alla becca nella neve, avvolgendo la corda intorno per assicurare Massi negli ultimi metri, su suggerimento di Nicola. Avevamo paventato qualche cornice, ed invece ci ritroviamo su un’ampia cresta nevosa e pianeggiante, con declivi arrotondati verso est. La cresta sommitale descrive una curva aggraziata verso destra, una sorta di boomerang in direzione NW- SE, largo e spazioso: cinque minuti più tardi siamo sulla vetta vera e propria. Non ci sono rocce, come sul Breithorn Occidentale , solo neve compatta e panorami sterminati; ci troviamo a 4215 metri, N45° 54.475’, E007° 51.700’. Il vento riprende a tratti e consumiamo rullini (io) e schede di memoria (i miei amici) in una frenesia fotografica facilmente comprensibile. Molti scialpinisti tedeschi salgono dopo di noi, in un lasso di tempo che va dai dieci minuti alla mezzora dopo: strette di mano e scambio di cioccolata, qualche chiacchiera, la nostra corda perennemente sotto ai piedi di tutti. A sud si strapiomba attraverso spazi infiniti fin sul Mantova e sul Gnifetti, con un colpo d’occhio che va dal Bianco al Gran Paradiso a tutta Ayas, Gressoney ed Alagna: foschie mattutine o vile smog celano le pianure retrostanti ed il Monviso, purtroppo. Ai nostri piedi, sulla sinistra, puntini microscopici si muovono sul colle Vincent, che termina in una grandiosa cornice quasi staccatasi: sopra al colle, verso N, un rialzo del ghiacciaio –attraversato dalla traccia per il Balmenhorn- funge da basamento per una cordata strepitosa di vette. Corno Nero (4322), Ludwigshöhe (4342) e Punta Parrot (4436), a sinistra della quale fa capolino la Zumstein (4563). A sinistra il già citato Lyskamm orientale (4527) e Naso del Lyskamm (4272). Sul Balmenhorn (4167) vediamo il bivacco Giordani e la grande statua del Cristo delle Vette, del 1955. I puntini di prima risalgono il declivio verso sinistra, in perpendicolare, dritti verso il Cristo.

Scendiamo alle 10.55, con un ancoraggio nel primissimo tratto per superare l’accoppiata ghiaccio vivo / pendenza eccessiva per le ciaspole, ripercorrendo i pendii inferiori della Vincent fino al colle e di nuovo giù per il gradino. Alle 12.30 doppiamo il rifugio Gnifetti, alle 12.45 siamo di nuovo al Mantova, sudati ed accaldati: il ghiacciaio è un forno a microonde, il caldo che sale dal basso è irrazionalmente più forte, il pile mi tortura. Temo per la piccola e coraggiosa digitale nella tasca. Il mio primo atto al rifugio è di acquistare una bottiglia di minerale, prima di prendermi una bella pausa su una panca in ombra accanto all’ingresso. Il costo della nostra mezza pensione è di 160 Euro complessivi, forse troppi considerando il già citato problema dei servizi igienici: alle 14.10 partiamo, incontrando però molta neve marcia dai 2900 metri in poi. Riprendiamo la strada dell’andata fino al Gabiet: non esito a riconoscere che il rientro dal Mantova è stato complessivamente più difficile, pesante e snervante di tutta la salita!, con tanto di sprofondamenti in piccole voragini che hanno richiesto l’uso della pala per liberare la ciaspola, sole incessante, impossibilità di allungare il passo, spreco continuo di energie per uscire dai buchi nella neve. Il traverso dell’andata si rivela percorso da inquietanti scie di blocchi di neve e ghiaccio caduti dall’alto: il tè finisce, mi riduco a trangugiare neve!, perfino il tratto precedente alle piste del Gabiet si ostina a farci sprofondare nella neve fino alle ginocchia. Al Gabiet ci accoglie un cane ed il deserto, le funivie sono chiuse di lunedì. Non possiamo nemmeno posare lo zaino per un minuto, le piste sono un coacervo di neve marcia e terra percorso dai cingoli dei gatti: prendiamo una pista molto ripida, prospiciente alla Bettaforca, schizzando fanghiglia ad altezza d’uomo, gli scarponi ormai fradici d’acqua sporca. Sono le 19.20 quando sbuchiamo a Stafal, nel cui parcheggio campeggia una sola vettura: mai essere umano fu più lieto nel rivedere una Golf. Le ore di discesa mi hanno snervato: non è montagna questa!, non sono sentieri, solo ripidi e squallidi tagli tra boschi e sfasciumi. Non pronuncio parola e cerco solo di non risultare ulteriormente pesante, a mia volta, per i miei compagni di cordata che certo non hanno colpa della situazione.

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Avvolti dalla solita orgia di moscerini, una volta imbarcate armi e bagagli decidiamo di fermarci in un locale a monte del parcheggio di Stafal, la cui proprietaria ci accoglie con uno sguardo che rispecchia la nostra condizione: mi vedo per come mi guarda, semidistrutto, assetato, scarmigliato. Non mi lavo da due giorni e non ho rasato la barba. Cammino in scarpe da ginnastica con lo stile di uno yeti. Sono ustionato nello stile de Incontri ravvicinati (ma su tutto il volto) e probabilmente è per pietà che Massimiliano spiega alla signora la nostra avventura, per sommi capi: intanto optiamo per due birrette ed una aranciata, facendo entrare nella storia –così come la “canzone del Breithorn” resterà per sempre Pictures of You dei Cure- l’ormai immortale “birra della Vincent”, la rossa London Pride. Della Vincent resta un senso di stupore e meraviglia, un rullino ed una scheda di fotografie troppo belle per essere vere, un vagone di ricordi e la consapevolezza di aver portato a casa una bella avventura. E le risate di mezzo migliaio di ragazzi e ragazze a Milano, in facoltà, per l’aspetto eccessivamente “lampadato” della mia faccia. 

In sintesi, una bella e gratificante salita, con pochi appunti: attenzione al ritorno ed alla neve troppo molle, attenzione all’evoluzione del ghiacciaio con questi crepacci già aperti o quasi aperti ad aprile, e –come sempre- molta prudenza ad ogni passo. Ma soprattutto, una salita da non perdere.

 

 

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