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Rifugio Capanna Osservatorio Regina Margherita alla Punta Gnifetti
"Dinanzi a questa grandezza di monti ed a questa solenne distesa di ghiacciai, tace il dubbio misero, e la fede si alza forte e vivace a Dio" S. A. R. Margherita Maria Teresa Giovanna di Savoia presso la Capanna Margherita, agosto 1893. Citazione da Mario
Aldrovandi. Rifugio Capanna Osservatorio Regina Margherita. Storia, letteratura e vicissitudini Rifugio più
alto d’Europa, posto a ben 4554 metri sulla cresta sommitale della
bella Punta Gnifetti o Signalkuppe, la “Capanna” Regina Margherita
si pone come valente ed ammirevole connubio tra tecnologia e storia, tra
uomo e montagna, incastonata in un ambiente glaciale difficilmente
descrivibile a parole. Avamposto umano nel regno delle alte quote, si
presta sia all’accoglienza per gli alpinisti di passaggio, sia come
valido osservatorio scientifico. La
sua storia affonda le radici nella prima metà dell’Ottocento. Per ben
tre volte (nel 1834, 1836 e 1839) il parroco di Alagna Giovanni
Gnifetti (1801-1867) aveva tentato di raggiungere questa fiera cima,
posta al termine di un immenso “viale” glaciale fiancheggiato da
cangianti quote superiori ai 4000 metri. Vai
alla Galleria fotografica - Vai a GPS Von Welden,
veterano delle guerre napoleoniche, visse le lotte avvenute nel Piemonte
intorno al 1821, nell’inquieto periodo successivo al tentativo di
insurrezione costituzionalista promosso dai giovani nobili ed
inizialmente patrocinato da Carlo Alberto, principe di Carignano,
stroncato con pugno di ferro da Carlo Felice. Divenuto generale si occupò
quindi della cartografia delle zone alpine di confine, salendo
nell’agosto del 1822 l’attuale Ludwigshőhe e pubblicando nel
1824 le proprie conclusioni in un’opera dedicata al Rosa, Der
Monte Rosa. Eine topographische und naturistorische Skizze, nebst einem
Anhange der von Herrn Zumstein gemachten reisen zur Ersteigung seiner
Gipfel. L’opera
venne stampata a Vienna da Carl Gerold; Welden, in seguito, divenne
governatore della zona dalmata nel 1848 e, l’anno successivo,
comandante supremo in Ungheria. In un’epoca di fortissime
rivalità internazionali, destinate a sfociare nella duplice ecatombe
mondiale del Novecento, gli italiani battezzarono Punta Gnifetti la
medesima vetta, dando luogo all’ennesima divergenza toponomastica e
cartografica. Edito nel settembre 1925, Gruppo
Monte Rosa di Amilcare Bertolini e Giuseppe
F. Gugliermina descrisse il Rifugio-Osservatorio
Regina Margherita (4559). Sorge sulla Punta Gnifetti (propr. del CAI,
sede Centrale; 2 tavolati con 10 materassi; coperte; servizio d'albergo
dal 15 luglio al 15 settembre. Chiavi presso l'albergo Guglielmina o
presso il cav. Antonio Carestia, Alagna). La storia
dell’attuale rifugio si sposta quindi, dalle auliche vette e
dall’epopea dei primi coraggiosi
alpinisti, alle silenti e severe sale torinesi che ospitarono, il 14
luglio del 1889, l’Assemblea generale del giovane Club Alpino
Italiano. In tale sede
venne approvata con grande entusiasmo l’avveniristica proposta del
delegato Alessandro Sella, primo salitore della punta sudoccidentale del
Dente del Gigante, nel 1882. Si trattava di un progetto inerente ad un
punto d’appoggio sopra i 4500 metri: con coerenza, l’Assemblea diede
immediatamente inizio allo studio delle ipotesi e della scelta del luogo
ideale. Grandi nomi della scienza e della nobiltà italiane ed europea
concorsero nel patrocinare l’iniziativa; malgrado l’atmosfera certo
non distesa e collaborativa che esisteva a livello internazionale, anche
il Club Alpino tedesco (o meglio, la sezione monegasca) partecipò
alla raccolta fondi, insieme ai Savoia, al giovanissimo governo
dell’Italia unitaria, e così via. Vennero raccolte 17.900 lire e 55
centesimi per una struttura in larice americano di circa dieci metri per
quattro, che venne assemblata e provata a Biella, trasportata a
Gressoney e quindi - prima a dorso di mulo, quindi grazie a portatori
locali - in quota. Si ricorse anche ad una sorta di argano, per issare
più agevolmente l’ingente carico; con saggezza, la struttura venne
ricoperta in rame, realizzando così una gabbia di Faraday contro le
scariche elettriche. Come ricorda Mario
Aldrovandi, la
reale visitatrice venne accompagnata dalla marchesa Paola di Villamarina
e da sua figlia, dal principe Strozzi, dal senatore Costantino Perazzi,
dal Presidente del Club Alpino Francesco Gonella, dai fratelli Antonio,
Egon, Carlo, Roberto Peccoz, dalla baronessa Gisella Beck Peccoz, da
Gaudenzio Sella, nonché dal costruttore della Capanna, Benedetto
Phettarich. Venne accolta dal
senatore novarese Costantino Perazzi
(1832-1896), membro del Club
Alpino e ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio
prima, nonché, in seguito, delle Finanze. Il 4 settembre del medesimo
anno si tenne l’inaugurazione ufficiale della nuova Capanna alla
presenza di venticinque persone, tra cui il generale e deputato
parlamentare Calderini. Da allora, la gestione e la manutenzione del
rifugio è stata affidata alla sezione CAI di Varallo Sesia, mentre
guide alpine e portatori provenienti da Alagna e Gressoney hanno, per
lunghi decenni, egregiamente servito la struttura. La proprietà
nominale appartiene al CAI centrale. Vi venne implementata e forse
“inventata” la pratica medicinale d’alta quota, grazie agli
esperimenti del fisiologo torinese Angelo Mosso (1846-1910) e del
collega berlinese Zuntz, salito dalla Trinité al rifugio Regina
Margherita nel 1901. Costante fu l’evoluzione dell’avamposto, che
nel 1898 venne dotato di una sorta di torretta aperta, per permettere
l’osservazione e la sperimentazione; nel 1902 vennero realizzate sette
stanze, di cui tre riservare agli alpinisti e quattro agli scienziati.
Rifugio Regina Margherita. La struttura attuale Il rifugio ospita al momento 70 posti letto, per uno spazio di ben mille metri cubi, su tre piani. La nuova e più vasta struttura è in legno di larice americano ed abete, coibentata con lana di roccia e rivestita in rame, per precauzione; il rifugio invernale offre 19 posti letto, con telefono di emergenza ed acqua di fusione. La lunghezza è di circa 31 metri per 9.40 d'altezza e quasi 8 d'altezza; il secondo piano ospita due stanze al momento riservate all'Università di Torino mentre il pianterreno è diviso tra cucina, magazzino, corridoio e generatore. La struttura è assicurata da tiranti e sostenuta da pali sul versante italiano, visibili ai piedi del celebre balcone ligneo. Secondo Simone Guidetti, responsabile del Sistema di Gestione ambientale del rifugio (articolo Capanna Regina Margherita, ne La Rivista, maggio-giugno 2010) l'energia elettrica è fornita da un generatore elettrico Perkins a gasolio, capace di erogare circa il 40% dei suoi 64 kWp nominali a causa dell'alta quota; pannelli fotovoltaici alimentano le luci ed il telefono di emergenza, nonché il moderno impianto wi-fi. Acqua di fusione viene prodotta grazie a due collettori solari che riforniscono un serbatoio da 250 litri, mentre bombole GPL vengono adoperate in cucina. Nel 2002, come noto, il rifugio è stato premiato del prestigioso certificato UNI EN ISO 14001. Il sito ufficiale, nella sterminata sitografia Web dedicatale, è http://www.caivarallo.it/rifugi/margherita.htm. Il numero di telefono, 0163 91039; indirizzo di posta elettronica, info@rifugimonterosa.it. Rifugio Regina Margherita. Ricerche medico-scientifiche Il versante scientifico dell’ambizioso progetto venne predisposto e studiato da un novero di grandi nomi della scienza italiana di quegli anni, riuniti in Comitato: Piero Giacosa ed il suddetto Angelo Mosso, Francesco Porro, Andrea Naccari, Alfonso e Gaudenzio Sella, con il patrocinio di S.A.R. Margherita di Savoia e del principe sabaudo Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco, Duca degli Abruzzi (1873-1933), che contribuì addirittura con 5000 lire al budget adibito alla strumentazione scientifica. Tale emolumento venne inviato al Comitato scientifico nel corso della sua circumnavigazione del pianeta sulla nave Liguria. S.A.R. il Duca, inoltre, volle cedere nel 1902 al rifugio parte degli avanzati strumenti adoperati nella spedizione al Polo Nord del 1900: un eliofotometro, un anemometro a mano, un anemometro e anemoscopio registratore Richard, un sismografo Tosetti, un elettrometro EMS, un elettrometro di Brown. Nel 1925 il celebre glaciologo gressonaro professore Umberto Monterin, nato ad Ejola nel 1887, divenne titolare degli osservatori del Monte Rosa, che comprendevano una stazione ad Ejola (1850 metri), una ad Alagna, una al lago del Gabiet (2340), la stessa Capanna Regina Margherita ed il più recente punto d’appoggio del Colle d’Olen (2901), fondato nel 1901. Esistevano anche stazioni a Salzen, sul Ghiacciaio del Lys, oltre ad un nivometro installato sul Lysjoch, a circa 4280 metri di quota; nel 1903 il Consiglio Internazionale delle Accademie, nella lontana Londra, plaudì il presidio scientifico costituito da questo eccezionale rifugio. Monterin, che a partire dal 1931 sarebbe stato nominato anche segretario del Comitato Glaciologico Italiano (l’ex Commissione Glaciologica Italiana, nata nel 1895) gestì questi osservatori fino al 1940, anno della sua morte. Presso la Capanna si occupò in prevalenza di meteorologia ed incidenza dell’altitudine su svariati fenomeni naturali. Una fotografia scattata da Monterin al rifugio Regina Margherita, ritraente il pluviometro totalizzatore situato alla Punta Gnifetti è disponibile sul numero di febbraio 1935 - XIII della Rivista del CAI, a pagina 70, nell'articolo intitolato "Variazioni periodiche dei ghiacciai italiani nel 1933- XI". Ulteriori studi glaciologici nell’area della Punta Gnifetti vennero condotti dal dottor Wagenbach, dell’Università di Heidelberg, portando alla scoperta dello spessore glaciale al colle Gnifetti - circa 130 metri. Gli studi fisiologici e medici di Mosso e Zuntz vennero ripresi in epoca più recente, dopo la grande opera di rifacimento della struttura più alta d’Europa: un’idea varata nel 1976 da Giacomo Priotto, Presidente del Club Alpino, e da Giorgio Tiraboschi, segretario generale del prestigioso Ente. Il 30 agosto del 1970, dopo anni dedicati allo smantellamento ed al ripristino della struttura (da non dimenticare, malgrado l’ausilio degli elicotteri, l’impossibilità di lavoro nei mesi invernali o in caso di maltempo prolungato) si inaugurò la nuova struttura. Tornando alla
medicina, nel 1983 si aprì una nuova stagione di ricerca grazie al
dottor Mazzuero dell’Università di Pavia, alla dottoressa Pecchio
dell’Università di Torino, al dottor Maggiorini dell’Ospedale
Universitario di Zurigo. Nell’ambito di questa sperimentazione vennero
analizzate le condizioni fisiche di molti alpinisti, con tanto di telemonitoraggio
cardiologico ad opera del dottor Giacomo Benedetti. Nel febbraio del
2003 questo importante precedente medico venne riconosciuto e riportato
in auge dall’ASL piemontese, con delibera del Servizio Sanitario
Nazionale, che dichiarò
Centro di Sperimentazioni Cliniche
il
rifugio più alto d’Europa. Tuttora la struttura ospita team medici
internazionali, con monitoraggio e censimento scientifico degli
alpinisti di passaggio, che vengono sottoposti (previo consenso,
ovviamente!) a misurazione della pressione e del battito cardiaco,
all’esame spirometrico e della saturazione d’ossigeno,
all’elettrocardiogramma e così via. Tra il luglio e l’agosto del
1998 si tenne una sessione di analisi congiunta tra la Fondazione
Maugeri di Veruno e la californiana San Diego University, sotto la guida
della dottoressa Paola Lanfranchi e del dottor George Cremona. Gli esami
erano effettuati sia alla Capanna che ad Alagna, per un confronto
inerente alle variazioni portate dalla quota. Gli avvenimenti
più rilevanti della recente storia di questa gloriosa Capanna, ormai
vero e proprio rifugio, constano dell’inserimento nella prestigiosa
categoria UNI EN ISO 2001,
relativa alla riduzione dell’impatto ambientale, nonché
dell’integrazione della struttura nell’avanzata rete di monitoraggio
meteo della Regione Piemonte, lanciata nel 2002. In tale modo, le misurazioni automatiche
registrate presso la Punta Gnifetti affluiscono alla Sala Situazione
Rischi Naturali, gestita dall’ARPA a Torino, insieme a quelle di circa
340 altre stazioni d’allerta nivometeotologica automatica, nonché dei
radar meteo. La suite automatica del rifugio, posta sul tetto, comprende
un barometro, un anemometro, due radiometri ed ovviamente un termometro.
Nel 2007 il Politecnico di Torino scelse il rifugio più alto d'Europa
per alcuni innovativi esperimenti dedicati alle hydrogen fuel cells;
nell’agosto del 2004, infine, una bellissima iniziativa
nata nell’ambito della sezione di Varallo del CAI portò
all’inaugurazione della Biblioteca più alta d’Europa,
in
memoria di Enrico Detomasi, nota guida alpina e maestro di sci che tanto
operò in favore di questo rifugio.
Salita al rifugio
più alto d’Europa E’ sabato 2 agosto 2008 e, con tre amici - tra cui il webmaster del ben noto Lemiemontagne.it - sono salito dal grande parcheggio di Stafal, in alta Valle del Lys, al Passo dei Salati, a quota 2936 metri ed a N45 52.624 E7 52.072, immediatamente a nord del roccioso Corno del Camoscio e “sotto” il cupo torrione dello Stolemberg. Ad oriente, una densa nuvolaglia nasconde a tratti la sagoma caratteristica dell’Istituto Scientifico Mosso di Fisiologia Umana. La salita mediante funivia ci è costata 25 Euro, più una breve pausa tecnica al Gabiet, in attesa che riprendesse la seconda tratta. Sono le 15.30 quando, carichi, lasciamo i Salati, arrivando alle 16.40 alle vecchie strutture di Punta Indren, a 3260 metri. Abbiamo incontrato una gran folla che procede nei due sensi, lungo il tratto scivoloso ed umido dello Stolemberg, attrezzato con una corda. In un paesaggio lunare, sede di un precedente ghiacciaio, si traversa in semipiano alla volta della grande bastionata sulla quale sorge, ancora invisibile, il rifugio Mantova. Il vecchio Ghiacciaio d’Indren, ormai, è ridotto ad un vasto nevaio, a sua volta umiliato da grandi sacche d’acqua appena racchiusa da una sottile pellicola più densa. Malgrado scarponi e ghette, ci ritroviamo ben presto con i piedi fradici, perché ad ogni passo si sprofonda per una spanna e più, prima di trovare ghiaccio solido; è come camminare in una fredda palude punteggiata da pietrisco scuro, vene azzurre, sepolta sotto strati di nuvolaglia che paiono preannunciare il “colpo” del tuono e l’arrivo del temporale. Saliamo per una via originale e pressoché verticale nell’ultimo tratto, attrezzata alla bell’e meglio con tronchi di legno e spesse corde bianche. Frequenti rivoli ruscellano allegramente tra le stabili e grandi rocce chiare, a tratti rosate, su cui procediamo; è dura restare attaccati ai tronchi disposti a guisa di quadro svedese, con il forte peso dello zaino sulle spalle. L’equivalente di salire una scala a pioli con scarponi ed un bambino sulle spalle. Sono le 18.00
quando entriamo al rifugio Mantova, che ho toccato anche nel 2007
salendo alla bella Piramide Vincent,
provenendo questa volta dal roccioso bordo del pianoro glaciale sul
quale sorge il rifugio. Superiamo qualche piazzola costruita con sassi e
roccette, oltre ad una croce in ferro disposta dal CAI Milanese il 25
agosto del 1904; dalla croce ammiro il panorama a meridione, il triste
spettacolo della morte di un altro ghiacciaio, la severa sagoma dello
Stolemberg adorna di nubi cangianti e grigiastre al contempo. Sotto alla
fascia grigio piombo delle nubi, più in là, scorgo il Monte
Zerbion illuminato dal sole, più che mai degno dell’antico
soprannome Mont Pers. Ci accoglie il piccolo e futuristico Cristo
sulla roccia all’ingresso del Mantova, ove fervono lavori in corso:
una nuova ala, in legno, è in via di realizzazione alle spalle del
rifugio. La camera è la numero uno, la cena alle 19.45, secondo turno.
La sera declina su Ayas, sulla Valle del Lys, sul mondo ai nostri piedi;
scopro il triste significato del toponimo Punta Cris per la bella
Quota 2899, e sono fiero di averlo
perpetuato nel mio libro, uscito da
pochi giorni. Il giorno
successivo, 3 agosto, la sveglia è alle 04.00 di mattina, la partenza
avviene alle 05.23. Risaliamo in cordata al cospetto della Piramide
Vincent, superando la prima rampa del Garstelet fino al fianco del
rifugio Gnifetti, incassato nella sua “mensola” rocciosa, alla
nostra sinistra. La difficoltà complessiva, a seconda del manuale (la mia bibliografia è vasta quanto i miei fondi han potuto
permettere) è F o F+. Il sole ci
coglie a 4248 metri, metro più, metro meno, ma non fa assolutamente
freddo: intorno a me, lo sbuffare ritmico degli alpinisti, il sommesso
tintinnio di moschettoni ed attrezzi, il crepitio costante dei ramponi
sulla neve compatta e ben dura, che riduce drasticamente la nostra
fatica. Il tubicino del mio camelbag coglie comunque l’occasione per
gelare, e ripiego sul succo di frutta avanzato questa notte; il
traditore si scioglierà solo con il sole che ci inonderà una volta
doppiata l’ancora lontana Punta Parrot, con ammirevole senso del dovere.
Troviamo solo tre crepacci, durante la risalita del Lys, con ottima
traccia. Vi sono molti alpinisti, alcuni in cordate di dieci persone,
ben pochi “armati” di picca; a tratti sembra di dover gareggiare per
guadagnare posizioni, la gente brontola se si intralcia la marcia, se ci
si vuole fermare, occorre allontanarsi subito dalla traccia e mettere in
salvo la corda. Parrebbe la dannata Montenapoleone!, non fosse che per
l’incredibile, maestoso, superbo panorama che ad ogni passo si rivela
ai nostri occhi. Immessi nel
possente “viale” di 4000 dalla Vincent,
superiamo il roccioso Balmenhorn che, dall’iniziale sperone nero, si
rivela invece una lunga cresta affiorante, che custodisce il bivacco
Felice Giordano (4167) e la grande statua del Cristo delle Vette,
realizzata dall’ex partigiano Alfredo Bai ed inaugurata nel settembre
del 1955. Questa opera, smontata e riportata in ottime condizioni, è
stata riportata in quota proprio nel 2008, dopo una cerimonia tenuta a
Sant’Anna da monsignor Giuseppe Anfossi, il 31 agosto. Il rifugio
Margherita dista circa quattro chilometri, in linea d’aria, dal
Mantova. Transitiamo ammirando le linee severe ed ingannevolmente
placide del Lyskamm Orientale, cui il Naso pare voler invitare,
superando il Corno Nero o Schwarzhorn prima, la Ludwigshőhe poi,
transitando dal Colle del Lys e piegando sensibilmente verso destra, a
nordest. Il sole, come anticipato, ci inonda dal fianco destro una volta
superata la Ludwigshöhe e la Punta
Parrot, una vasta punta di morbida panna intonsa, o così
parrebbe: alla nostra destra, il Colle Sesia. La
traccia risale l’ampia china nevosa, sormontata a destra dalla Punta
Gnifetti ed a sinistra dalla Zumstein, quasi parallele da questa
prospettiva. L’ultimo tratto è più duro, le cordate si sono
sfoltite, abbiamo recuperato molta gente con il nostro passo calmo ma
costante; forse siamo solo più allenati, forse più giovani, forse
semplicemente troppo abbacinati da questo ambiente talmente bello ed
immaginifico da risultare ampiamente disumano. Si
piega ad oriente per l’ultima curva, sul vasto pianoro che precede il
Colle Gnifetti. Quassù, tutto è ampio, non esistono le mezze misure. Ressa
nell’ultimo tratto.. Una salita verso destra, quindi, rientro a
sinistra fino alla cresta sommitale. Dal basso, il
rifugio è nero ed appiattito, una sorta di castello o casa forte
medievale, arroccato al termine di una dorsale dentellata e rossastra di
rocce aguzze e minacciose. Un parallelepipedo scuro, adagiato ed
allungato. Una sorta di piazzola nevosa triangolare si assottiglia verso
meridione, puntando come una lama le lontane Dame di Challand, il Monte
Nery, il lontanissimo Monviso. Sono le 09.10, mi trovo a N45 55.616
E7 52.612, ed ora faccio parte a mia volta della gloriosa e nobile
storia di questo rifugio. La
soddisfazione è tanta. Non sono stanco, perché abbiamo adottato un
passo molto tranquillo, anche se troppo breve per la mia falcata, e
questo m’è costato energia; ho percorso gli ultimi tratti, da circa
un’ora, ricostruendo strofe di vecchie canzonette, salmodiando
mentalmente tabelline, assordandomi con astrusi rebus ed auscultandomi
il polso, finché ho deciso che no, non sto soffrendo il mal di montagna
di cui si parla tanto. Una scaletta porta al balcone più suggestivo che
abbia mai percorso, sul lato destro del rifugio, che appare stretto e
massiccio allo stesso tempo: entro in una stanzetta affollata pervasa
dalle scariche statiche di una radio, cui si interpongono saltuarie e
monotone frasi in tedesco. I lontani interlocutori parlano così
lentamente che, malgrado la distanza dalla radio, capisco che si tratta
di guide e che si trovano in più gruppi, tra il colle Gnifetti ed il
colle Zumstein. Nella stanzetta di legno, un signore italiano si sente
male, è pallido come un cencio. La sala
principale del rifugio è lunga e stretta, dal soffitto basso percorso
da cavi elettrici e rivelatori di fumo. Un basso sportello aggetta sulla
cucina, ampia e chiara, dalla quale ci passano tè bollente e Coca Cola
– ho sete, voglio qualcosa di freddo e chimicamente alterato. I tavoli
sono lunghi e stracarichi di alpinisti, alcuni dei quali molto malmessi;
si procede sfiorando, scusandosi, spostando zaini, evitando bandiere kata
appese nello stretto passaggio tra la cucina ed il bagno. Alle mie
spalle una bella ed elegante stufa rossa e nera, di grande valore, che
non sfigurerebbe affatto nella mia baita di montagna, se disponessi
di una baita di montagna; alla sua destra e contro la parete,
annichilita dalla luce cangiante che entra da una finestra, la
biblioteca Emilio Detomasi è custodita da un semplice armadio di legno
chiaro. Mi scuso con i miei tre amici ed esco al più presto possibile
dallo stanzone: il caldo è allucinante, la folla esagerata, ed il
panorama esterno troppo invitante. Non c’è un alito di vento, e posso
ammirare due coppie di alpinisti che risalgono la strapiombante cresta
Signal, fino ai piedi del mio balcone. Laggiù, in fondo, scorgo il
Mucrone, il Mars.. La mia casa. Da qui, in totale assenza di nubi,
scorgo più vette di quante io abbia mai sentito il nome. Le valli si
irradiano in una sorta di foschia azzurrina, che è semplice ombra,
mentre i versanti più alti e le cime delle dorsali si ergono fieramente
nella luce solare. E’ surreale, ma
mi trovo qui, a più di quattro chilometri e mezzo sul livello del mare,
con la sola preoccupazione di non calpestare piedi e fibbie da zaino sul
pavimento di legno, scattando una foto dopo l’altra, con il mondo ai
miei piedi. Chiacchiero in italiano, francese e tedesco – nessuno
emette un vocabolo in inglese, e mi adeguo – e provo a salutare la mia
cordata dalla finestra, ma senza successo; loro tre lasceranno sul mio
taccuino le loro impressioni, immortalando con una matita spuntata il
triplice ricordo di una giornata bellissima. Non sono nemmeno sudato, la
mia preoccupazione secondaria è di non ricevere altre gocce gelide nel
collo, dopo le prime tre. Torno
verso sud, scusandomi, spostando, spostandomi, sfiorando, aspettando,
scattando.. Di nuovo la dannata San Babila. La piazzola nevosa, in realtà
l’ultima propaggine della cresta meridionale, è colma di persone ed
attrezzature: una foresta di picche multicolori, un pavimento di ramponi
(alcuni dei quali all’insù, come trappole vietcong), una siepe di
zaini e zainetti, ed altri alpinisti continuano ad arrivare. Poco oltre
garrisce selvaggiamente la bandiera italiana, e sopra di noi vola un
monomotore bianco, a carrello fisso. Ripartiamo alle
11.00, scendendo con calma sulla neve ribollente, superando al contrario
cordate che continuano ad arrivare.. Andiamo relativamente di fretta,
non tanto per l’appuntamento con l’esosa funivia, bensì per la
sconcertante abitudine dei crepacci di aprirsi con il calore solare.
Difatti ne salteremo alcuni, letteralmente: correre legati, con qualche
metro di corda di margine e ramponi ai piedi, “zoccolo” nevoso a
rallentare il passo, è qualcosa di inedito. Mi ricorda la corsa nei
sacchi, quella specie di tortura medievale cui ci sottoponevano al
vecchio oratorio ove ero obbligato ad andare; sembrano passati eoni.
Rientriamo alle 16.00 ai Salati, dove attendo il trio. Calma e quieta
discesa.. London Pride al bar del piazzale di Stafal, ormai è
una tradizione. Concluderò la giornata risalendo Ayas in pullman, io e
lo zaino abbracciati come fidanzatini delle medie, fino a Champoluc:
picca, ramponi ed ogni oggetto metallico furiosamente cacciati
all’interno per tema che l’autista mi obblighi a mettere il tutto
nel bagagliaio.. In sintesi, una
salita stupenda, una giornata praticamente perfetta. Grandi panorami,
poca fatica, concretizzata in una lunga e bella escursione d’alta
quota; non ho personalmente registrato alcuna differenza nel mio fisico
o nella mia mente rispetto alle quote inferiori, e nei giorni successivi
sono tornato in montagna, alla Quota 2934,
alla Quota 2777 e così via. L’impressione
che ho maturato dal rifugio, in sé, è di ottima organizzazione e
professionalità: non un tugurio carico di materiali e vetusto d’anni,
bensì una struttura pulita, ragionevolmente spaziosa ed ordinata, con
segnali di sicurezza e sistemi antincendio dappertutto. Le lamentele per
il prezzo delle bevande, che ho ascoltato ai Salati aspettando i miei
tre compagni d’escursione, sono francamente ridicole; la lattina di
Coca che ho ordinato non è salita da sola ad oltre 4500 metri, e mi
chiedo quanti piloti d’elicottero siano abilitati al volo d’alta
montagna. Le mie impressioni relative alla difficoltà della salita sono
state confermate, casualmente, da un amico aostano salito a sua volta al
rifugio Regina Margherita poco più tardi. Una stupenda escursione in un
ambiente inconcepibile per chi non vi sia ancora passato, ma,
naturalmente, un contesto glaciale ed alpinistico da affrontare con la
dovuta cautela, allenamento ed equipaggiamento. Vai alla Galleria fotografica - Vai a GPS
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