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Rifugio Capanna Osservatorio Regina Margherita alla Punta Gnifetti

 

"Dinanzi a questa grandezza di monti ed a questa  solenne distesa di ghiacciai, tace il dubbio misero, 

e la fede si alza forte e vivace a Dio"

S. A. R. Margherita Maria Teresa Giovanna di Savoia presso la Capanna Margherita,  agosto 1893. 

    Citazione da Mario Aldrovandi.

Rifugio Capanna Osservatorio Regina Margherita. Storia, letteratura e vicissitudini

Rifugio più alto d’Europa, posto a ben 4554 metri sulla cresta sommitale della bella Punta Gnifetti o Signalkuppe, la “Capanna” Regina Margherita si pone come valente ed ammirevole connubio tra tecnologia e storia, tra uomo e montagna, incastonata in un ambiente glaciale difficilmente descrivibile a parole. Avamposto umano nel regno delle alte quote, si presta sia all’accoglienza per gli alpinisti di passaggio, sia come valido osservatorio scientifico. La sua storia affonda le radici nella prima metà dell’Ottocento. Per ben tre volte (nel 1834, 1836 e 1839) il parroco di Alagna Giovanni Gnifetti (1801-1867) aveva tentato di raggiungere questa fiera cima, posta al termine di un immenso “viale” glaciale fiancheggiato da cangianti quote superiori ai 4000 metri. Nel 1836 Gnifetti aveva raggiunto i 4480 metri, prima di essere respinto dal ghiaccio troppo duro. Tra l’8 ed il 9 agosto del 1842 la costanza e la passione del sacerdote vennero infine premiate quanto una cordata composta dal geometra Cristoforo Grober, dal teologo Giuseppe Farinetti, da Cristoforo Ferraris nonché dai fratelli Giovanni e Giacomo Giordani riuscì a raggiungere l’ambita vetta. Vi parteciparono anche Gnifetti e due portatori; Farinetti riuscì a collocare un grande vessillo rosso sul torrione che distingueva la cima. L’ignota vetta era stata battezzata in precedenza Signalkuppe o Punta del Segnale proprio per via di questo sperone, ormai scomparso in luogo dell’attuale rifugio. Il nome era stato prescelto da un celebre ufficiale austriaco, inizialmente di stanza nel Württemberg ed in seguito responsabile dell’artiglieria imperiale austriaca, Franz Ludwig, barone von Welden (1780-1853). 

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Von Welden, veterano delle guerre napoleoniche, visse le lotte avvenute nel Piemonte intorno al 1821, nell’inquieto periodo successivo al tentativo di insurrezione costituzionalista promosso dai giovani nobili ed inizialmente patrocinato da Carlo Alberto, principe di Carignano, stroncato con pugno di ferro da Carlo Felice. Divenuto generale si occupò quindi della cartografia delle zone alpine di confine, salendo nell’agosto del 1822 l’attuale Ludwigshőhe e pubblicando nel 1824 le proprie conclusioni in un’opera dedicata al Rosa, Der Monte Rosa. Eine topographische und naturistorische Skizze, nebst einem Anhange der von Herrn Zumstein gemachten reisen zur Ersteigung seiner Gipfel. L’opera venne stampata a Vienna da Carl Gerold; Welden, in seguito, divenne governatore della zona dalmata nel 1848 e, l’anno successivo, comandante supremo in Ungheria. In un’epoca di fortissime rivalità internazionali, destinate a sfociare nella duplice ecatombe mondiale del Novecento, gli italiani battezzarono Punta Gnifetti la medesima vetta, dando luogo all’ennesima divergenza toponomastica e cartografica.  

Edito nel settembre 1925, Gruppo Monte Rosa di Amilcare Bertolini e Giuseppe F. Gugliermina descrisse il Rifugio-Osservatorio Regina Margherita (4559). Sorge sulla Punta Gnifetti (propr. del CAI, sede Centrale; 2 tavolati con 10 materassi; coperte; servizio d'albergo dal 15 luglio al 15 settembre. Chiavi presso l'albergo Guglielmina o presso il cav. Antonio Carestia, Alagna).

La storia dell’attuale rifugio si sposta quindi, dalle auliche vette e dall’epopea dei primi  coraggiosi alpinisti, alle silenti e severe sale torinesi che ospitarono, il 14 luglio del 1889, l’Assemblea generale del giovane Club Alpino Italiano. In tale sede venne approvata con grande entusiasmo l’avveniristica proposta del delegato Alessandro Sella, primo salitore della punta sudoccidentale del Dente del Gigante, nel 1882. Si trattava di un progetto inerente ad un punto d’appoggio sopra i 4500 metri: con coerenza, l’Assemblea diede immediatamente inizio allo studio delle ipotesi e della scelta del luogo ideale. Grandi nomi della scienza e della nobiltà italiane ed europea concorsero nel patrocinare l’iniziativa; malgrado l’atmosfera certo non distesa e collaborativa che esisteva a livello internazionale, anche il Club Alpino tedesco (o meglio, la sezione monegasca) partecipò alla raccolta fondi, insieme ai Savoia, al giovanissimo governo dell’Italia unitaria, e così via. Vennero raccolte 17.900 lire e 55 centesimi per una struttura in larice americano di circa dieci metri per quattro, che venne assemblata e provata a Biella, trasportata a Gressoney e quindi - prima a dorso di mulo, quindi grazie a portatori locali - in quota. Si ricorse anche ad una sorta di argano, per issare più agevolmente l’ingente carico; con saggezza, la struttura venne ricoperta in rame, realizzando così una gabbia di Faraday contro le scariche elettriche. L’erigenda capanna era stata provvista non solo di un ricovero per gli alpinisti, bensì, nell’ottica scientifica ed esplorativa del Club Alpino, di un punto d’osservazione affacciato su un mondo all’epoca pressoché sconosciuto: il grande spazio delle alte quote, con la loro strana messe di peculiarità scientifiche, il loro assoluto isolamento, che le rendevano ideali e fortemente attrattive agli occhi degli studiosi del tardo ottocento. Il 18 agosto del 1893 la sovrana Margherita Maria Teresa Giovanna (1851-1926), regina d’Italia e moglie di Umberto I di Savoia, raggiunse con un nutrito seguito di guide, portatori, soldati di scorta e personale di servizio la nuova capanna, tenendola a battesimo. 

Come ricorda Mario Aldrovandi, la reale visitatrice venne accompagnata dalla marchesa Paola di Villamarina e da sua figlia, dal principe Strozzi, dal senatore Costantino Perazzi, dal Presidente del Club Alpino Francesco Gonella, dai fratelli Antonio, Egon, Carlo, Roberto Peccoz, dalla baronessa Gisella Beck Peccoz, da Gaudenzio Sella, nonché dal costruttore della Capanna, Benedetto Phettarich. Venne accolta dal senatore novarese Costantino Perazzi (1832-1896), membro del Club Alpino e ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio prima, nonché, in seguito, delle Finanze. Il 4 settembre del medesimo anno si tenne l’inaugurazione ufficiale della nuova Capanna alla presenza di venticinque persone, tra cui il generale e deputato parlamentare Calderini. Da allora, la gestione e la manutenzione del rifugio è stata affidata alla sezione CAI di Varallo Sesia, mentre guide alpine e portatori provenienti da Alagna e Gressoney hanno, per lunghi decenni, egregiamente servito la struttura. La proprietà nominale appartiene al CAI centrale. Vi venne implementata e forse “inventata” la pratica medicinale d’alta quota, grazie agli esperimenti del fisiologo torinese Angelo Mosso (1846-1910) e del collega berlinese Zuntz, salito dalla Trinité al rifugio Regina Margherita nel 1901. Costante fu l’evoluzione dell’avamposto, che nel 1898 venne dotato di una sorta di torretta aperta, per permettere l’osservazione e la sperimentazione; nel 1902 vennero realizzate sette stanze, di cui tre riservare agli alpinisti e quattro agli scienziati. Si segnala che, nel 1926, venne pubblicato da Giovanni Pizzi il volume Alpinismo, recensito da Varasc.it in riedizione anastatica, che a pagina 39 asserisce: (...) Alla cap. Margherita (M. Rosa, m.4560) un individuo in ottimo stato di nutrizione e completamente riposato non riuscì in un'ora a compiere più della metà del lavoro intellettuale compiuto in analoghe condizioni ad Alagna (m. 1200), dove non riscontrò sensibili differenze da quello compiuto in pianura.

Rifugio Regina Margherita. La struttura attuale

Il rifugio ospita al momento 70 posti letto, per uno spazio di ben mille metri cubi, su tre piani. La nuova e più vasta struttura è in legno di larice americano ed abete, coibentata con lana di roccia e rivestita in rame, per precauzione; il rifugio invernale offre 19 posti letto, con telefono di emergenza ed acqua di fusione. La lunghezza è di circa 31 metri per 9.40 d'altezza e quasi 8 d'altezza; il secondo piano ospita due stanze al momento riservate all'Università di Torino mentre il pianterreno è diviso tra cucina, magazzino, corridoio e generatore. La struttura è assicurata da tiranti e sostenuta da pali sul versante italiano, visibili ai piedi del celebre balcone ligneo.

Secondo Simone Guidetti, responsabile del Sistema di Gestione ambientale del rifugio (articolo Capanna Regina Margherita, ne La Rivista, maggio-giugno 2010) l'energia elettrica è fornita da un generatore elettrico Perkins a gasolio, capace di erogare circa il 40% dei suoi 64 kWp nominali a causa dell'alta quota; pannelli fotovoltaici alimentano le luci ed il telefono di emergenza, nonché il moderno impianto wi-fi. Acqua di fusione viene prodotta grazie a due collettori solari che riforniscono un serbatoio da 250 litri, mentre bombole GPL vengono adoperate in cucina. Nel 2002, come noto, il rifugio è stato premiato del prestigioso certificato UNI EN ISO 14001. Il sito ufficiale, nella sterminata sitografia Web dedicatale, è http://www.caivarallo.it/rifugi/margherita.htm. Il numero di telefono, 0163 91039; indirizzo di posta elettronica, info@rifugimonterosa.it

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Rifugio Regina Margherita. Ricerche medico-scientifiche

Il versante scientifico dell’ambizioso progetto venne predisposto e studiato da un novero di grandi nomi della scienza italiana di quegli anni, riuniti in Comitato: Piero Giacosa ed il suddetto Angelo Mosso, Francesco Porro, Andrea Naccari, Alfonso e Gaudenzio Sella, con il patrocinio di S.A.R. Margherita di Savoia e del principe sabaudo Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco, Duca degli Abruzzi (1873-1933), che contribuì addirittura con 5000 lire al budget adibito alla strumentazione scientifica. Tale emolumento venne inviato al Comitato scientifico nel corso della sua circumnavigazione del pianeta sulla nave Liguria. S.A.R. il Duca, inoltre, volle cedere nel 1902 al rifugio parte degli avanzati strumenti adoperati nella spedizione al Polo Nord del 1900: un eliofotometro, un anemometro a mano, un anemometro e anemoscopio registratore Richard, un sismografo Tosetti, un elettrometro EMS, un elettrometro di Brown. Nel 1925 il celebre glaciologo gressonaro professore Umberto Monterin, nato ad Ejola nel 1887, divenne titolare degli osservatori del Monte Rosa, che comprendevano una stazione ad Ejola (1850 metri), una ad Alagna, una al lago del Gabiet (2340), la stessa Capanna Regina Margherita ed il più recente punto d’appoggio del Colle d’Olen (2901), fondato nel 1901. Esistevano anche stazioni a Salzen, sul Ghiacciaio del Lys, oltre ad un nivometro installato sul Lysjoch, a circa 4280 metri di quota; nel 1903 il Consiglio Internazionale delle Accademie, nella lontana Londra, plaudì il presidio scientifico costituito da questo eccezionale rifugio.

Monterin, che a partire dal 1931 sarebbe stato nominato anche segretario del Comitato Glaciologico Italiano  (l’ex Commissione Glaciologica Italiana, nata nel 1895) gestì questi osservatori fino al 1940, anno della sua morte. Presso la Capanna si occupò in prevalenza di meteorologia ed incidenza dell’altitudine su svariati fenomeni naturali. Una fotografia scattata da Monterin al rifugio Regina Margherita, ritraente il pluviometro totalizzatore situato alla Punta Gnifetti è disponibile sul numero di febbraio 1935 - XIII della Rivista del CAI, a pagina 70, nell'articolo intitolato "Variazioni periodiche dei ghiacciai italiani nel 1933- XI". Ulteriori studi glaciologici nell’area della Punta Gnifetti vennero condotti dal dottor Wagenbach, dell’Università di Heidelberg, portando alla scoperta dello spessore glaciale al colle Gnifetti - circa 130 metri. Gli studi fisiologici e medici di Mosso e Zuntz vennero ripresi in epoca più recente, dopo la grande opera di rifacimento della struttura più alta d’Europa: un’idea varata nel 1976 da Giacomo Priotto, Presidente del Club Alpino, e da Giorgio Tiraboschi, segretario generale del prestigioso Ente. Il 30 agosto del 1970, dopo anni dedicati allo smantellamento ed al ripristino della struttura (da non dimenticare, malgrado l’ausilio degli elicotteri, l’impossibilità di lavoro nei mesi invernali o in caso di maltempo prolungato) si inaugurò la nuova struttura. 

Tornando alla medicina, nel 1983 si aprì una nuova stagione di ricerca grazie al dottor Mazzuero dell’Università di Pavia, alla dottoressa Pecchio dell’Università di Torino, al dottor Maggiorini dell’Ospedale Universitario di Zurigo. Nell’ambito di questa sperimentazione vennero analizzate le condizioni fisiche di molti alpinisti, con tanto di telemonitoraggio cardiologico ad opera del dottor Giacomo Benedetti. Nel febbraio del 2003 questo importante precedente medico venne riconosciuto e riportato in auge dall’ASL piemontese, con delibera del Servizio Sanitario Nazionale, che dichiarò Centro di Sperimentazioni Cliniche il rifugio più alto d’Europa. Tuttora la struttura ospita team medici internazionali, con monitoraggio e censimento scientifico degli alpinisti di passaggio, che vengono sottoposti (previo consenso, ovviamente!) a misurazione della pressione e del battito cardiaco, all’esame spirometrico e della saturazione d’ossigeno, all’elettrocardiogramma e così via. Tra il luglio e l’agosto del 1998 si tenne una sessione di analisi congiunta tra la Fondazione Maugeri di Veruno e la californiana San Diego University, sotto la guida della dottoressa Paola Lanfranchi e del dottor George Cremona. Gli esami erano effettuati sia alla Capanna che ad Alagna, per un confronto inerente alle variazioni portate dalla quota.  

Gli avvenimenti più rilevanti della recente storia di questa gloriosa Capanna, ormai vero e proprio rifugio, constano dell’inserimento nella prestigiosa categoria UNI EN ISO 2001, relativa alla riduzione dell’impatto ambientale, nonché dell’integrazione della struttura nell’avanzata rete di monitoraggio meteo della Regione Piemonte, lanciata nel 2002. In tale modo, le misurazioni automatiche registrate presso la Punta Gnifetti affluiscono alla Sala Situazione Rischi Naturali, gestita dall’ARPA a Torino, insieme a quelle di circa 340 altre stazioni d’allerta nivometeotologica automatica, nonché dei radar meteo. La suite automatica del rifugio, posta sul tetto, comprende un barometro, un anemometro, due radiometri ed ovviamente un termometro. Nel 2007 il Politecnico di Torino scelse il rifugio più alto d'Europa per alcuni innovativi esperimenti dedicati alle hydrogen fuel cells; nell’agosto del 2004, infine, una bellissima iniziativa nata nell’ambito della sezione di Varallo del CAI portò all’inaugurazione della Biblioteca più alta d’Europa, in memoria di Enrico Detomasi, nota guida alpina e maestro di sci che tanto operò in favore di questo rifugio. Si tratta di una sezione distaccata della più grande biblioteca Italo Grassi, ed a queste pagine è possibile raccogliere l’elenco dello scibile e della sua provenienza: http://www.caivarallo.it/commissioni/biblioteca/bibliomargherita.htm.

 

Salita al rifugio più alto d’Europa 

E’ sabato 2 agosto 2008 e, con tre amici - tra cui il webmaster del ben noto Lemiemontagne.it - sono salito dal grande parcheggio di Stafal, in alta Valle del Lys, al Passo dei Salati, a quota 2936 metri ed a N45 52.624 E7 52.072, immediatamente a nord del roccioso Corno del Camoscio e “sotto” il cupo torrione dello Stolemberg. Ad oriente, una densa nuvolaglia nasconde a tratti la sagoma caratteristica dell’Istituto Scientifico Mosso di Fisiologia Umana. La salita mediante funivia ci è costata 25 Euro, più una breve pausa tecnica al Gabiet, in attesa che riprendesse la seconda tratta. Sono le 15.30 quando, carichi, lasciamo i Salati, arrivando alle 16.40 alle vecchie strutture di Punta Indren, a 3260 metri. Abbiamo incontrato una gran folla che procede nei due sensi, lungo il tratto scivoloso ed umido dello Stolemberg, attrezzato con una corda. In un paesaggio lunare, sede di un precedente ghiacciaio, si traversa in semipiano alla volta della grande bastionata sulla quale sorge, ancora invisibile, il rifugio Mantova. Il vecchio Ghiacciaio d’Indren, ormai, è ridotto ad un vasto nevaio, a sua volta umiliato da grandi sacche d’acqua appena racchiusa da una sottile pellicola più densa. Malgrado scarponi e ghette, ci ritroviamo ben presto con i piedi fradici, perché ad ogni passo si sprofonda per una spanna e più, prima di trovare ghiaccio solido; è come camminare in una fredda palude punteggiata da pietrisco scuro, vene azzurre, sepolta sotto strati di nuvolaglia che paiono preannunciare il “colpo” del tuono e l’arrivo del temporale. Saliamo per una via originale e pressoché verticale nell’ultimo tratto, attrezzata alla bell’e meglio con tronchi di legno e spesse corde bianche. Frequenti rivoli ruscellano allegramente tra le stabili e grandi rocce chiare, a tratti rosate, su cui procediamo; è dura restare attaccati ai tronchi disposti a guisa di quadro svedese, con il forte peso dello zaino sulle spalle. L’equivalente di salire una scala a pioli con scarponi ed un bambino sulle spalle.

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Sono le 18.00 quando entriamo al rifugio Mantova, che ho toccato anche nel 2007 salendo alla bella Piramide Vincent, provenendo questa volta dal roccioso bordo del pianoro glaciale sul quale sorge il rifugio. Superiamo qualche piazzola costruita con sassi e roccette, oltre ad una croce in ferro disposta dal CAI Milanese il 25 agosto del 1904; dalla croce ammiro il panorama a meridione, il triste spettacolo della morte di un altro ghiacciaio, la severa sagoma dello Stolemberg adorna di nubi cangianti e grigiastre al contempo. Sotto alla fascia grigio piombo delle nubi, più in là, scorgo il Monte Zerbion illuminato dal sole, più che mai degno dell’antico soprannome Mont Pers. Ci accoglie il piccolo e futuristico Cristo sulla roccia all’ingresso del Mantova, ove fervono lavori in corso: una nuova ala, in legno, è in via di realizzazione alle spalle del rifugio. La camera è la numero uno, la cena alle 19.45, secondo turno. La sera declina su Ayas, sulla Valle del Lys, sul mondo ai nostri piedi; scopro il triste significato del toponimo Punta Cris per la bella Quota 2899, e sono fiero di averlo perpetuato nel mio libro, uscito da pochi giorni.

Il giorno successivo, 3 agosto, la sveglia è alle 04.00 di mattina, la partenza avviene alle 05.23. Risaliamo in cordata al cospetto della Piramide Vincent, superando la prima rampa del Garstelet fino al fianco del rifugio Gnifetti, incassato nella sua “mensola” rocciosa, alla nostra sinistra. La difficoltà complessiva, a seconda del manuale (la mia bibliografia è vasta quanto i miei fondi han potuto permettere) è F o F+. Il sole ci coglie a 4248 metri, metro più, metro meno, ma non fa assolutamente freddo: intorno a me, lo sbuffare ritmico degli alpinisti, il sommesso tintinnio di moschettoni ed attrezzi, il crepitio costante dei ramponi sulla neve compatta e ben dura, che riduce drasticamente la nostra fatica. Il tubicino del mio camelbag coglie comunque l’occasione per gelare, e ripiego sul succo di frutta avanzato questa notte; il traditore si scioglierà solo con il sole che ci inonderà una volta doppiata l’ancora lontana Punta Parrot, con ammirevole senso del dovere. Troviamo solo tre crepacci, durante la risalita del Lys, con ottima traccia. Vi sono molti alpinisti, alcuni in cordate di dieci persone, ben pochi “armati” di picca; a tratti sembra di dover gareggiare per guadagnare posizioni, la gente brontola se si intralcia la marcia, se ci si vuole fermare, occorre allontanarsi subito dalla traccia e mettere in salvo la corda. Parrebbe la dannata Montenapoleone!, non fosse che per l’incredibile, maestoso, superbo panorama che ad ogni passo si rivela ai nostri occhi.

Immessi nel possente “viale” di 4000 dalla Vincent, superiamo il roccioso Balmenhorn che, dall’iniziale sperone nero, si rivela invece una lunga cresta affiorante, che custodisce il bivacco Felice Giordano (4167) e la grande statua del Cristo delle Vette, realizzata dall’ex partigiano Alfredo Bai ed inaugurata nel settembre del 1955. Questa opera, smontata e riportata in ottime condizioni, è stata riportata in quota proprio nel 2008, dopo una cerimonia tenuta a Sant’Anna da monsignor Giuseppe Anfossi, il 31 agosto. Il rifugio Margherita dista circa quattro chilometri, in linea d’aria, dal Mantova. Transitiamo ammirando le linee severe ed ingannevolmente placide del Lyskamm Orientale, cui il Naso pare voler invitare, superando il Corno Nero o Schwarzhorn prima, la Ludwigshőhe poi, transitando dal Colle del Lys e piegando sensibilmente verso destra, a nordest. Il sole, come anticipato, ci inonda dal fianco destro una volta superata la Ludwigshöhe e la Punta Parrot, una vasta punta di morbida panna intonsa, o così parrebbe: alla nostra destra, il Colle Sesia. La traccia risale l’ampia china nevosa, sormontata a destra dalla Punta Gnifetti ed a sinistra dalla Zumstein, quasi parallele da questa prospettiva. L’ultimo tratto è più duro, le cordate si sono sfoltite, abbiamo recuperato molta gente con il nostro passo calmo ma costante; forse siamo solo più allenati, forse più giovani, forse semplicemente troppo abbacinati da questo ambiente talmente bello ed immaginifico da risultare ampiamente disumano. Si piega ad oriente per l’ultima curva, sul vasto pianoro che precede il Colle Gnifetti. Quassù, tutto è ampio, non esistono le mezze misure. Ressa nell’ultimo tratto.. Una salita verso destra, quindi, rientro a sinistra fino alla cresta sommitale.

Dal basso, il rifugio è nero ed appiattito, una sorta di castello o casa forte medievale, arroccato al termine di una dorsale dentellata e rossastra di rocce aguzze e minacciose. Un parallelepipedo scuro, adagiato ed allungato. Una sorta di piazzola nevosa triangolare si assottiglia verso meridione, puntando come una lama le lontane Dame di Challand, il Monte Nery, il lontanissimo Monviso. Sono le 09.10, mi trovo a N45 55.616 E7 52.612, ed ora faccio parte a mia volta della gloriosa e nobile storia di questo rifugio. La soddisfazione è tanta. Non sono stanco, perché abbiamo adottato un passo molto tranquillo, anche se troppo breve per la mia falcata, e questo m’è costato energia; ho percorso gli ultimi tratti, da circa un’ora, ricostruendo strofe di vecchie canzonette, salmodiando mentalmente tabelline, assordandomi con astrusi rebus ed auscultandomi il polso, finché ho deciso che no, non sto soffrendo il mal di montagna di cui si parla tanto. Una scaletta porta al balcone più suggestivo che abbia mai percorso, sul lato destro del rifugio, che appare stretto e massiccio allo stesso tempo: entro in una stanzetta affollata pervasa dalle scariche statiche di una radio, cui si interpongono saltuarie e monotone frasi in tedesco. I lontani interlocutori parlano così lentamente che, malgrado la distanza dalla radio, capisco che si tratta di guide e che si trovano in più gruppi, tra il colle Gnifetti ed il colle Zumstein. Nella stanzetta di legno, un signore italiano si sente male, è pallido come un cencio.

La sala principale del rifugio è lunga e stretta, dal soffitto basso percorso da cavi elettrici e rivelatori di fumo. Un basso sportello aggetta sulla cucina, ampia e chiara, dalla quale ci passano tè bollente e Coca Cola – ho sete, voglio qualcosa di freddo e chimicamente alterato. I tavoli sono lunghi e stracarichi di alpinisti, alcuni dei quali molto malmessi; si procede sfiorando, scusandosi, spostando zaini, evitando bandiere kata appese nello stretto passaggio tra la cucina ed il bagno. Alle mie spalle una bella ed elegante stufa rossa e nera, di grande valore, che non sfigurerebbe affatto nella mia baita di montagna, se disponessi di una baita di montagna; alla sua destra e contro la parete, annichilita dalla luce cangiante che entra da una finestra, la biblioteca Emilio Detomasi è custodita da un semplice armadio di legno chiaro. Mi scuso con i miei tre amici ed esco al più presto possibile dallo stanzone: il caldo è allucinante, la folla esagerata, ed il panorama esterno troppo invitante. Non c’è un alito di vento, e posso ammirare due coppie di alpinisti che risalgono la strapiombante cresta Signal, fino ai piedi del mio balcone. Laggiù, in fondo, scorgo il Mucrone, il Mars.. La mia casa. Da qui, in totale assenza di nubi, scorgo più vette di quante io abbia mai sentito il nome. Le valli si irradiano in una sorta di foschia azzurrina, che è semplice ombra, mentre i versanti più alti e le cime delle dorsali si ergono fieramente nella luce solare.

E’ surreale, ma mi trovo qui, a più di quattro chilometri e mezzo sul livello del mare, con la sola preoccupazione di non calpestare piedi e fibbie da zaino sul pavimento di legno, scattando una foto dopo l’altra, con il mondo ai miei piedi. Chiacchiero in italiano, francese e tedesco – nessuno emette un vocabolo in inglese, e mi adeguo – e provo a salutare la mia cordata dalla finestra, ma senza successo; loro tre lasceranno sul mio taccuino le loro impressioni, immortalando con una matita spuntata il triplice ricordo di una giornata bellissima. Non sono nemmeno sudato, la mia preoccupazione secondaria è di non ricevere altre gocce gelide nel collo, dopo le prime tre. Torno verso sud, scusandomi, spostando, spostandomi, sfiorando, aspettando, scattando.. Di nuovo la dannata San Babila. La piazzola nevosa, in realtà l’ultima propaggine della cresta meridionale, è colma di persone ed attrezzature: una foresta di picche multicolori, un pavimento di ramponi  (alcuni dei quali all’insù, come trappole vietcong), una siepe di zaini e zainetti, ed altri alpinisti continuano ad arrivare. Poco oltre garrisce selvaggiamente la bandiera italiana, e sopra di noi vola un monomotore bianco, a carrello fisso. Ripartiamo alle 11.00, scendendo con calma sulla neve ribollente, superando al contrario cordate che continuano ad arrivare.. Andiamo relativamente di fretta, non tanto per l’appuntamento con l’esosa funivia, bensì per la sconcertante abitudine dei crepacci di aprirsi con il calore solare. Difatti ne salteremo alcuni, letteralmente: correre legati, con qualche metro di corda di margine e ramponi ai piedi, “zoccolo” nevoso a rallentare il passo, è qualcosa di inedito. Mi ricorda la corsa nei sacchi, quella specie di tortura medievale cui ci sottoponevano al vecchio oratorio ove ero obbligato ad andare; sembrano passati eoni. Rientriamo alle 16.00 ai Salati, dove attendo il trio. Calma e quieta discesa.. London Pride al bar del piazzale di Stafal, ormai è una tradizione. Concluderò la giornata risalendo Ayas in pullman, io e lo zaino abbracciati come fidanzatini delle medie, fino a Champoluc: picca, ramponi ed ogni oggetto metallico furiosamente cacciati all’interno per tema che l’autista mi obblighi a mettere il tutto nel bagagliaio..

In sintesi, una salita stupenda, una giornata praticamente perfetta. Grandi panorami, poca fatica, concretizzata in una lunga e bella escursione d’alta quota; non ho personalmente registrato alcuna differenza nel mio fisico o nella mia mente rispetto alle quote inferiori, e nei giorni successivi sono tornato in montagna, alla Quota 2934, alla Quota 2777 e così via.

L’impressione che ho maturato dal rifugio, in sé, è di ottima organizzazione e professionalità: non un tugurio carico di materiali e vetusto d’anni, bensì una struttura pulita, ragionevolmente spaziosa ed ordinata, con segnali di sicurezza e sistemi antincendio dappertutto. Le lamentele per il prezzo delle bevande, che ho ascoltato ai Salati aspettando i miei tre compagni d’escursione, sono francamente ridicole; la lattina di Coca che ho ordinato non è salita da sola ad oltre 4500 metri, e mi chiedo quanti piloti d’elicottero siano abilitati al volo d’alta montagna. Le mie impressioni relative alla difficoltà della salita sono state confermate, casualmente, da un amico aostano salito a sua volta al rifugio Regina Margherita poco più tardi. Una stupenda escursione in un ambiente inconcepibile per chi non vi sia ancora passato, ma, naturalmente, un contesto glaciale ed alpinistico da affrontare con la dovuta cautela, allenamento ed equipaggiamento. In ultima analisi, “distratto” dall’incredibile panorama esterno, ho dimenticato di firmare il libro degli ospiti del più alto rifugio d’Europa.. Questo implicava, necessariamente, che io tornassi a porre rimedio a questa imperdonabile dimenticanza. E così è stato, con la bella salita alla Punta Zumstein: ma questa è un'altra storia.

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