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Monte Castore, luglio - agosto 2007: niente si lascia a metà L'estate 2007 ha visto il ritorno di Varasc.it in vetta al monte Castore, dopo l'esperienza del 2004: tre anni in cui i tre protagonisti di questo racconto -la montagna, l'Autore, il sito stesso- sono ovviamente cambiati, senza però pregiudicare il nuovo incontro delle reciproche rotte. Ulteriori salite al Castore, relative agli anni 2004, 2008, 2010, 2011 e 2013, sono disponibili nel sito. Tentativo al Castore,
domenica 22 luglio 2007 Sono le 12.37, il tempo è soleggiato e mi
trovo a Bettaforca (2727, N45 52.217 E7 46.943): siamo in tre, Marco
-già mio compagno di cordata sul Breithorn
Occidentale Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Lunedì 23 luglio 2007 mi si presenta, mentre
-caso unico- mi dirigo con il rasoio alla volta del bagno esterno,
stellato e fin troppo caldo: niente vento, niente freddo, la Valle del
Lys illuminata, fari di un camion. Sono di ottimo umore: la sveglia
era stabilita alle 04.25 ma a quell'epoca avevo già piegato le
coperte ed il sacco- lenzuolo, avendo dormito più che a sufficienza.
A colazione il nostro tavolo è fortunatamente immune dalla strana
malattia che sembra falciare le cordate, questa mattina: "Io non
parto", "Non ho dormito niente", perfino la versione
francese del nostro Ho contato le ore, una dopo l'altra. Valerio
sembra un po' più affaticato ma è solo un'impressione: sono le 05.00
e siamo seduti sulla comodissima piazzola, ottima per calzare i
ramponi e poggiare gli zaini. Partenza alle 05.16: sono in posizione
mediana. Marco, il più leggero, adotta un passo ingannevolmente lento
che ci porta a superare tutte le altre cordate, fino a trovarci in
seconda posizione: davanti a noi, altri tre alpinisti- già puntini
pronti a sparire sotto la depressione ai piedi del Felik- ed un
singolo spagnolo dalla giacca gialla, armato di una magnifica
Hasselblad, che talloniamo fino alla Punta
Perazzi. Rimpiango la Zeiss- Ikon,
lasciata a casa. Panorama mozzafiato, passo giusto sotto la mia
velocità di crociera ottimale, stiamo tutti e tre benissimo: Valerio
continua a cercare di parlare con Marco, senza accorgersi come ciò
sia impossibile visti i venti e passa metri di distanza. Ponte-radio
umano, gli consiglio di mandargli una e-mail via cavo, indicando
la corda. Purtroppo però nuvole allungate e nerastre nascondono le
luci dell'alba sul Rosa e sopra di noi, già oltre il Felik: ad ovest
è ancora chiaro, ma dalla Valsesia -sempre lei!- il fronte nuvoloso
sembra far perno sulla Piramide Vincent,
ruotando veloce verso di noi. Sono le 07.15 e mi trovo da qualche
parte sopra il Colle Felik.. Al buio:
ho alzato la testa ufficialmente solo dopo il primo traverso ripido,
alle soglie dei 4000 metri. Ora siamo a quota 4091, secondo il GPS, e
siamo qui dalle 07.01.16. Sette minuti e tre secondi più tardi il GPS,
al sicuro nella sua custodia sullo spallaccio dello zaino, registra
4100 metri: in realtà siamo fermi. O meglio, sto ballando intorno ai
miei compagni di cordata, tutti bloccati in questo falsopiano bianco
ad aspettare che torni il sole, la luce. Non si vede a cinque metri di
distanza, è come ritrovarsi in una bottiglia di latte o candeggina,
con un fondo bianco: eppure devo tenere gli occhiali, il riverbero è
forte. Alpinisti italiani e stranieri, intorno a noi, battono
reciprocamente le mani cercando di non calpestare le corde, allungate
dappertutto sul ghiaccio. Marco e Valerio, il primo depresso, il
secondo preoccupato per il meteo, restano fermi a guardarmi ballare,
mezzo imbiancato dal nevischio e mezzo asciutto. Alle 07.30, stabilito
con rigorosa certezza di essere tutti d'accordo -niente
recriminazioni postume, una volta a valle.. - gettiamo la spugna e
seguiamo le altre cordate sconfitte, scendendo tutti insieme: un
centinaio e più alpinisti, un'unica lunghissima cordata nel latte e
nella candeggina, giù dai pendii del Felik. Perfino la traccia viene
ricoperta dal nevischio, Marco -silente, furibondo- è costretto a
correre per non perdere di vista gli altri, e così via quelli dietro
Valerio. Scene da copertina de "Aria sottile" di
Krakauer, quando usciamo dalla brodaglia a cento passi dal Sella:
uomini informi, innevati in ogni interstizio del vestiario,
infagottati, neri di rabbia e delusione. Un singolo alpinista filma la
scena, viene scrutato come uno squilibrato, lo guardo con lo stesso
astioso ribrezzo di chi rallenta per "ammirare" la scena di
un incidente. Marco non parla, Valerio cerca di rassicurarci, è
contento per aver superato la soglia dei 4000 per la prima volta.. Non
è stata colpa nostra. Efficace come persuadere una tigre a diventare
vegana. Sono le 08.28 quando rimettiamo piede al Sella, gli schiocchi
delle due bandiere mi ricordano i rintocchi finali de Per chi suona
la campana. Scuoto manate di neve dallo zaino e dal cappuccio del
guscio. Tutta Ayas è sgombra di nubi, panorama fantastico: massima
beffa!, il Castore stesso si sgombra per venti minuti scarsi, mentre
paghiamo. Il gestore, A. Favre, è gentilissimo e ci consola:
effettivamente ci siamo presentati all'appuntamento con la montagna in
forma smagliante, allenati e pronti, entusiasti e sani come pesci, ben
equipaggiati e capaci. Non abbiamo dimenticato, smarrito o lasciato
volontariamente indietro un singolo grammo di attrezzatura e
vestiario; siamo saliti d'ottimo passo, abbiamo aspettato.. Io avrei
resistito ancora, ho una soglia di tolleranza al freddo molto alta,
ma certo non si può mettere a repentaglio la salute dei propri amici
per uno stupido puntiglio. Infine, sono scesi -con noi o anche prima-
proprio tutti, oggi. Ma sono solo parole.. Autoconvinzione
forzata. Devo ricordarmi continuamente l'immagine della corda che
sparisce nel nulla, senza farmi vedere Marco!, oppure la serena
luminescenza del GPS con la quale ho vegliato
sulla nostra discesa dal Felik, per controllare la delusione..
Lasciamo il pianoro del Rifugio
Quintino Sella alle 09.05, e tutto ci pesa il doppio: sulla
cresta colgo ogni occasione per voltarmi, smetto solamente alla
Bettaforca, dove ho sepolto un vecchio paio di Nike con cui prendere
il largo. Alle 13.35 mi ritrovo alla Crocetta di Saint Jacques,
fissando per venticinque minuti la muta Punta Piure, a sud, prima che
Marco e Valerio mi raggiungano: al Frachey
la nostra auto è rimasta l'unica, al centro del parcheggio.
Chiacchieriamo ancora, alla Grange, sono contento di aver conosciuto
Valerio: una brava persona ed un ottimo compagno di cordata. Tuttavia
il nervoso, il senso di vuoto e di perdita sono forti, in un modo che
per un "non addetto ai lavori" riuscirebbe incomprensibile:
in fondo siamo saliti bene, abbiamo compiuto al 100% il nostro dovere,
senza malesseri e stupidaggini varie.. E siamo scesi tutti interi,
come insiste un'amica, cercando di suscitarmi quella che -dal suo punto
di vista- è pura e semplice obiettività. Lei però non può
conoscere il peso dello zaino, le ore là sotto, le pietre instabili,
il canapone che non arriva mai, l'attesa di domenica sera, l'esultanza
di lunedì mattina, la mia fortissima convinzione che queste nuvole adesso
si alzano, dai.. Il senso di sconfitta cocente durante la discesa,
il senso di errore, di essere contro natura, provato in quella
discesa eterna dove tutto -la mia mente, ogni mia fibra, muscolo e
nervo- era unicamente pronto e destinato a salire. La mia
incapacità di colmare questo vuoto, questa vergogna, con parole
sensate. Il bruciante istante, alla Capannina del Mulo, in cui la
vista di una semplice roccia -toccata il giorno prima- mi ha convinto,
per un nanosecondo, di essere ancora impegnato nella salita. Di
poter tornar su. Essere costretti a staccarsi da qualcosa di
amato, cercato e bramato -un oggetto, una persona, una montagna- è
crudele e contrario alla natura umana, tanto più quanto invece si
sente di aver meritato l'incontro. Odiose e pusillanimi frasi di
circostanza come le montagne non scappano, considerazioni
estemporanee del tipo la montagna è così, a volte si sale, a
volte no.. Riescono solo, nel migliore dei casi, ad acuire un
dispiacere già sensibilmente pesante. Senza giustificazioni e senza
scusanti, sono sceso da quella cresta con l'oscura ed umiliante
percezione -appena, appena oltre la soglia di coscienza e razionalità-
di aver mancato. Di aver tradito la fiducia di qualcuno. Di non aver
portato a termine ciò per cui ero tornato al Quintino Sella. Ho
calzato le vecchie Nike bucate e sono sceso di corsa, pur con venti
chili (e due scarponi da alpinismo) sulla schiena. Sono scappato. Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Monte Castore: il
ritorno Adesso la vediamo, mi dico
-testualmente- osservando il Castore scintillare, sornione, a nord:
chilometri di cresta sinuosa ed elegante, soli 636 metri di dislivello
dal Sella. Sono in forma, anche se nei due giorni precedenti ho salito
(da solo) il monte Rosso, 3021, e la Punta Ruines, 2824. Mi trovo
all'estremità settentrionale del vecchio rifugio, poiché ho voluto
ammirare la montagna -traccia, ghiacciaio, valico, anticime e vetta-
senza ostacoli. E' domenica 26 agosto ed una buona dose di nuove
vette, e migliaia di metri di dislivello, mi separano da quella
forzosa ritirata di fine luglio: contrariamente all'altra volta ho
sofferto un gran caldo durante la salita da Saint Jacques al Sella,
1896 metri di dislivello vissuti uno dopo l'altro, senza distrazioni.
Alle 11.05, grondanti, eravamo a Resy,
ripartendone alle 11.20; alle 12.30 ero al colle di Bettaforca,
ripartendone alle 13.04 dopo qualche pezzo di cioccolato e qualche
grado in meno. Per il pranzo vero e proprio abbiamo scelto la
Capannina del Mulo (3150 circa, N45 53.372 E7 47.038), stranamente
sgombra di bidoni e rumenta, come dice il mio amico vercellese.
Alle 15.00 sono arrivato alla selletta panoramica a quota 3250,
tagliando poi a destra sulla fascia di rocce chiare fino all'inizio
del canapone, raggiunto alle 15.50 (3450 circa, N45 53.802 E7 47.408
all'ometto). Ho trovato poca neve, fermandomi ad aspettare i due
compagni di cordata: Marco, ancora una volta, ed Alessandro, in
rappresentanza de Ayastrekking.it.
Un'ottima compagnia e, tra tutti e due, una solida esperienza di
montagna e di Val d'Ayas, basati -ultimo ma non meno importante- su
anni d'amicizia e reciproca conoscenza: niente da dire, una buona
cordata. Sono il primo ma arriverò per ultimo al Sella, alle 16.18:
Marco soffre di mal di stomaco da giorni e per questo motivo allunga
il passo sulla cresta, mentre mi attardo a fotografarne la parte
terminale, per due amici che presto vi saliranno per la prima volta.
Al rifugio, è sempre Anita ad indirizzarci alla stanza numero 10,
dove incontriamo -preparando già il letto e disfando lo zaino per
risistemarlo in ordine "da battaglia"- i due ragazzi che ci
accompagneranno l'indomani: un simpatico abruzzese, in vacanza sulle
vette valdostane, ed un tranquillo varesotto, apparentemente quasi
coetaneo dei miei amici ma già padre di famiglia. In cinque in una
stanza da otto posti non abbiamo certo problemi di spazio, così
nessuno se la prenderà se arrafferò una coperta in più, da usare
come cuscino extra. La cena è alle 19.00 in punto, per soli quaranta
ospiti, in parte italiani: pasta con sugo alle zucchine e nuovamente
roast beef con fagiolini caldi. Infine, bavarese al limone. Altre foto
al tramonto, con forti raffiche di vento, qualche nuvola ad oriente. Lunedì 27 agosto mi desta con il trambusto
della stanza risvegliatasi improvvisamente alle 04.40: di ieri sera
ricordo solo il caos fino alle ventidue!, con persone che parlavano ad
alta voce nella sala sottostante (siamo proprio sopra le scale). Ho
dormito magnificamente, sognando a lungo, e di tutto. Difficile
rialzarsi dopo una simile nottata, tra coltri calde, abbracciato al
sacchetto con digitale e GPS, per tenerne al caldo le insidiose
batterie. Vivo in una sorta di dejà vû: la stessa colazione, té
caldo nel bicchierone ustionante e vaschette di marmellata, niente
miele grazie, niente zucchero prego, il burro lo passo all'ala. Marco,
nonostante i miei sospetti in merito, ha assunto dell'Aulin ed ora è
l'archetipo vivente dell'alpinista impavido; Alessandro, come sempre,
sta benissimo ed è in forma, grazie al suo invidiabile ed unico
metabolismo. Anche i nostri compagni di stanza e di tavolo sembrano a
posto, l'uno taciturno, l'altro espansivo. Il sottoscritto ha solo una
meta in mente, capelli stile '80, zaino già pronto ai miei piedi:
perfetto rituale da caserma, sveglia - coperte e lenzuolo piegati -
zaino e materiali vari in spalla - giù per la colazione. Fuori è
buio e sereno, con nuvole sul Castore che destano grandi
preoccupazioni poliglotte nella sala e intorno al bagni, dove si
fermano gruppetti di alpinisti provenienti da mezzo mondo, tutti
intenti a guardare a nord con le mani in tasca. Scorgo una gentile
signora germanofona con tanto di beauty- case e, armato solo del mio
fedele spazzolino, mi sento una sorta di rude uomo del Klondike: il
rasoio stavolta è rimasto quasi duemila metri più a valle, niente
incontri galanti in quota, tanto. Sono le 05.43 quando ci troviamo
tutti fuori dal rifugio, alla luce delle alogene, le 05.47 quando
anche Alessandro si lega in cordata: io, che da solo peso quasi come
loro due, sono il terzo. Abbiamo discusso a lungo su chi riuscirebbe
a tenere chi altri, in caso di caduta in un crepaccio, e non è
occorso un genio per capire come sistemarci in cordata: l'abruzzese ci
cammina a tratti davanti, a tratti dietro, il varesotto resta
costantemente alle mie spalle. Il ghiacciaio opalescente si snoda
davanti a noi mentre cammino senza difficoltà, tranquillamente,
ammirando ora i due Tournalin, ora la Punta
Perazzi che ci giunge al
traverso sinistro: brutte nuvole ammantano il Rosa, ad est, e
soprattutto i Breithorn, ad ovest. Superiamo la Perazzi ed i Breithorn Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Ora sono le 21.48, a Champoluc piove. Ayas si
è svuotata come l'Andrea Doria in quella famosa notte, al TG
regionale si parla di ridurre il "Pratone" Varasc al rango
di parcheggio per camper. Hermann Buhl mi guarda dalla copertina della
mia copia -autografata da Kurt Diemberger, signori! - de "E'
buio sul ghiacciaio". Un pastore tedesco che non gradisce Never
Let Me Down Again dei Depeche mi fissa, sdegnato, sotto gli zaini.
Cosa è rimasto di queste giornate, di quella magnifica e sinuosa
schiena bianca, a parte la curiosa roccetta che uso come fermacarte? Siamo
partiti alle 08.00 in punto, incrociando poche, altre cordate. Tutti
stranieri e tutti di buon umore. Trenta minuti più tardi ho
trattenuto gli altri al parossismo, pronto ad incatenarmi
simbolicamente in segno di protesta (dove?) pur di immortalare lo
spettacolo dei Lyskamm, la seraccata, la Vincent. Alessandro che
scatta gigabyte di foto a sua volta, sotto di me, giù lungo la
discesa del Felik; l'amico varesotto che chiede di andare piano, di
non correre e di aspettarlo, così come aveva chiesto lungo la
"cresta affilata". Parla sempre pianissimo, devo sforzarmi
per sentirlo: in fondo sono io ad avergli detto, dopo il Felik -in
salita- "Qui non si vede niente, tu per carità stammi dietro e
non fermarti se non mi fermo io, vabin?", e lui segue
fedelmente il copione. Marco tira rabbiosamente la corda, non riesco a
fargli capire che dobbiamo aspettarlo, probabilmente capisce ch'io sia
nobilmente indignato per la nuvolaglia o per la sua fretta di
scendere. So cosa gli preme, mentre si vendica tagliando i due
traversi del Felik in pochi metri semi- verticali: arrivare al rifugio
prima che il sole, ormai presente, tramuti in marmellata questo
possente dorso bianco sotto di noi. La Perazzi si erge
insospettabilmente erta, affilata ad ovest. Ricordo la discesa a passo
di carica fino al ghiacciaio del Castore, in piano, ed il ritorno al
Sella, 09.30: niente piazzola, il gestore sta dipingendo le strisce
gialle dello helipad: foto di rito -siamo saliti in tre e torniamo in
sei: io, Marco ed Alessandro, più l'amico vercellese, il varesotto e
l'abruzzese, lanciatissimo - filmati, saluti agli alpinisti incontrati
ieri a cena, mentre l'attrezzatura fa finta di asciugarsi. Festeggiamo
-eresia! - con una lattina di Moretti portata fino a quota 4221 da
Marco, per aprirla servirebbero gli artificieri. Scendiamo alle 10.36,
arrivando alle 13.10 alla Bettaforca ed alla medesima panchina di
ieri: ho sepolto così bene le scarpe di tutti che devo tornare a
cercarle, Marco non le trova. Ripartiamo alle 13.45 arrivando a Resy
per le 14.40, dove il gentile varesotto ci offre una Coca; a Saint
Jacques ci presenta la sua famiglia, li saluto con piacere. Non capita
tutti i giorni di incontrare un bambino con alle spalle la Becca
Trecare. Il Castore, in questo 2007, si è fatto
desiderare.. Una montagna così bella ed elegante, in fondo, può
permettersi anche questo: forse le sarebbe convenuto un nome più
femminile, allora. Molte vette e molte giornate in montagna sono
trascorse da quel 15 luglio 2004: niente più fastidio per pendii
inclinati, discese scivolose, creste affilate. Niente guide a
trascinarmi di corsa per le nibelungiche conche pietrose del Sella, in
discesa: ora corro anche da solo. Una salita molto più bella, con
veri amici anziché sconosciuti, in completa autonomia, con il piacere
d'essere tornati ad affrontare la montagna e, con il favore del meteo
-unico elemento imponderabile- essersi scoperti all'altezza di ogni
difficoltà. Fin troppo, forse.. La vetta è arrivata troppo presto,
certo a casa della scarsissima visibilità: niente fatica, nessun
problema, un breve saliscendi ed eccomi in vetta. Ecco spuntare due
tedeschi dalla ovest. Ecco la gente sul Breithorn, il Polluce non ho
fatto in tempo a vederlo. Considerazioni? Una montagna magnifica,
superba, alla quale tornerò sempre. E per quanto ci riguarda?
L'abbiamo meritata, posso dire: due di noi sono saliti due volte da
1689 a 4000 metri, 4221 la seconda volta, solo per lei. Con tutto ciò
che questo ha comportato -allenamento, peso, attesa snervante, spese
ed anche qualche rischio: non siamo arrivati qui "di
straforo", niente jeep e niente scorciatoie, nessuno ci ha
portato lo zaino, né avremmo tollerato una qualsiasi mistificazione
simile. E tuttavia.. L'impressione latente, quel Ma siamo già
qui!?, persiste. Buoni propositi? Usiamo una frase fatta, per
una volta.. Non c'è due senza tre. Alla
prossima, monte Castore, perché fino a quando esisteranno montagne
belle come te, ed ottimi amici fidati con cui metterci in viaggio,
varrà la pena di guardare a nord da Champoluc. |
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