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Monte Polluce
Posto a 4091 metri di quota, il Polluce è un massiccio ed isolato monte a forma di 'panettone', dotato di una poderosa cresta rossiccia, situato tra Roccia Nera e Castore (4221) lungo la dorsale di confine. Ai piedi delle tre vette sono situati anche due importanti passi, Porta Nera o Schwarztor (3734) e Colle di Verra (3848). La salita al Polluce (N45 55.669 E7 47.119), ovviamente di carattere alpinistico, è giudicata di difficoltà PD (Richard Goedeke, "I 4000 delle Alpi"), o PD+/AD- (Gino Buscaini, "Monte Rosa"). Qui verrà presentata la relazione dettagliata dell'ascensione via canalino nevoso (W), con discesa da cresta SW: è tuttavia IMPORTANTE precisare che tale descrizione non può e non deve essere considerata categoricamente rappresentativa delle condizioni della montagna, in quanto -come ovvio- soggette a continue mutazioni. Apertura dei crepacci, innevamento, presenza di ghiaccio, zone di sfasciumi, perfino la presenza di tratti attrezzati. Sono elementi suscettibili delle più ampie variazioni. La presente relazione, come l'annesso tracciato GPS, avrà quindi una valenza illustrativa ed orientativa, mentre i suddetti elementi specifici della montagna andranno verificati -da fonti certe, quali gestori di rifugi, Guide etc. - prima di ogni salita. Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Monte Polluce, 03-04
agosto 2007 Il Polluce: simpatico e familiare 'panettone'
biancorosso, visto migliaia di volte da qualsiasi punto di Ayas. Ora
però, da Natale 2006 a questa parte, è diventata una meta: quali
sorprese riserverà? Io e Marco ci siamo incaricati di scoprirlo:
abbiamo curato ogni dettaglio dal vestiario all'attrezzatura,
dall'allenamento al "carico" ottimale, dal periodo migliore
al meteo, che ci ha costretti a parecchie, snervanti posticipazioni.
Abbiamo sondato ogni essere vivente che vi fosse salito, di persona o
attraverso e-mail, libri, Internet, sui sentieri del luglio ayassino.
Grazie a questa messe di interviste e ricerche siamo più o meno
consapevoli dell'itinerario di avvicinamento e di quanto seguirà,
riassumibile nel teorema "roccette - cengia - camino - cresta -
vetta". Ho perfino riesumato vecchie foto scattate personalmente
dalla vetta del Castore verso ovest, mi sono fermato cinque minuti ad
osservare lo sbiadito adesivo di un Toyota raffigurante un Polluce
molto stilizzato: non resta che l'ultimo, grande passo, andare
di persona a conoscerlo. Nell'ultima settimana il meteo altalenante ed
una brutta delusione sul Castore (23 luglio, a causa dell'improvviso
annuvolamento che ci ha sorpresi sopra il Colle di Felik) ci hanno
obbligati a disdire ancora. Il due agosto, ultima beffa!, diluvio a Champoluc
e nevicata in quota. Il terzo amico non si fa sentire, la nostra
cordata sembra minacciata. Che importanza può avere, ormai? Questo
Polluce ha varcato il sottile confine tra lo "Speriamo di
farcela prima o poi" e la vera ossessione: i giorni che ne
precederanno la salita saranno saturi di foschi presagi, incertezze,
dubbi. Ore passate su altre vette a fissare il nord fino a farsi
lacrimare gli occhi. Ecco perché, quando finalmente sorge il fatidico
venerdì tre agosto, devo trattenermi per non buttarmi fuori di casa:
i dubbi, derivati dalle bonacce dei tempi morti, sono indegne trappole
capaci di affossare ed incrinare perfino l'entusiasmo più vivo, lo
spirito più attivo. E come resistere e difendere la bandiera, se si
è già titubanti in partenza, alla prevedibile serie di denigrazioni
e difficoltà insormontabili che vengono dipinte prima di ogni salita
da chi c'è già stato? La montagna, se la sia ama davvero, guarisce
tutto: sono al Pian
di Verra Inferiore e salirei
di corsa, se Marco potesse, tanto sono di nuovo entusiasta e contento.
Finalmente il periodo del "forse" e dei continui "Sperumma.."
è finito, finalmente si sale, si agisce, si gioca. E' mezzogiorno e siamo all'attacco del
sentiero 7 per il rifugio Mezzalama, al Pian Superiore: pausa. Una
pausa moderatamente rallegrata, dice la parte più analitica della mia
mente di povero universitario, dal risparmio di 50 Euro in due -niente
jeep, siamo saliti da Saint Jacques a piedi. Tutto, finora, si è
svolto per il meglio e siamo finalmente in moto: perfino il fastidio
di salire a Fiery con gli scarponi da ghiacciaio, il caldo, il peso
dell'equipaggiamento sono mitigati dalla bellezza della salita. E poi
mi trovo in luoghi amati fin dall'infanzia, poiché di questo sentiero
accarezzo -da sempre- perfino certe rocce: lo si definisca 'spirito
dell'avventura', ma il trovarsi da soli nel mezzo del nulla,
unicamente affidati a sé stessi ed alle quattro cose contenute in uno
zaino, è una droga potente. Alle 13.58 arrivo all'adorato Rifugio
Mezzalama (N45 54.824 E7 45.566) pensando appunto come solo
la montagna sia sufficientemente magnetizzante da cancellare ogni
renitenza, ogni problema, ogni importantissima sciocchezza quotidiana:
in fondo sto rileggendo proprio l'Odissea e, se questa insegna
qualcosa, è proprio che l'ignoto è l'unico, vero freno alla naturale
curiosità e "voglia di fare" dell'uomo. Per cui, fumma
che andumma, andiamo a conoscere il Polluce. Interrogati
anche gli amici gestori del Mezzalama, ripartiamo alle 14.37: il
tratto che precede il Grande
Ghiacciaio di Verra è stato tratteggiato con altri segni
gialli, ora abbondanti, e nuovi ometti in caso di maltempo.
L'atmosfera è ottima, saliamo ridendo e prendendoci in giro come due
ragazzini, trovo il tempo per scervellarmi cercando di ricordare il
nome di Nick Nolte e torturando Marco con le trame dei mille film da
lui interpretati. Intanto abbiamo attraversato il Verra e ci accoglie
la prima, vastissima rampa di sfasciumi e pietrame instabile del Rifugio
Guide d'Ayas al Lambronecca: brutta, antipatica e
fermamente decisa a farsi detestare, come sempre. Poco sopra, invece,
una gradita sorpresa: la seconda rampa per il rifugio è stata
attrezzata con cura, utilizzando corde, gradini e piccole passerelle
di legno nei punti più sgradevoli. Sono le 15.45 e mi trovo alla
terrazza del Guide d'Ayas (N45 55.234 E7 46.019), luogo
definibile solamente con termini quali "immaginifico",
"scenografico": nobili e caritatevoli cortine di nuvole
salgono fino ai nostri piedi, ci hanno riparato dal sole battente, le
più alte carezzano la Gobba di Rollin mentre dai seracchi sottostanti
il Becco dell'Aquila crollano di schianto tonnellate di ghiaccio. Il
rifugio è insolitamente vuoto, forse a causa del maltempo del giorno
precedente: siamo in meno di quindici clienti, tra cui due belgi, tre
tedeschi con guida, tre ragazzi baschi, due italiani con guida. Io e
Marco sediamo a tavola con i due cordiali signori brianzoli e con la
loro guida di Domodossola, tra numerosi brindisi al Polluce: se la
facilità della salita si giudicasse dalla quantità di vino e
spumante che ci offrono a cena saremmo già intorno ai 4000 metri. La
cena è comunque ottima, lonza e patate al forno precedute da
pastasciutta con pomodoro e speck, con tanto di vista sulla Testa
Grigia, sul Bussola ancora illuminato dall'ultimo sole, sui Tournalin
che da qui ricordano le fauci di una trota che venga a galla. Domani
saliremo insieme al Polluce, mentre per ora saliamo in camera -numero
4- dove già nel pomeriggio abbiamo preparato i letti. La notte
trascorre tranquillamente nel rifugio vuoto. Dal secondo piano del
letto a castello -che condivido con GPS e
macchina fotografica per preservarne le batterie: non sempre si può
avere la compagnia che si vorrebbe.. - vedo le rocce di Lambronecca e
parte del Castore. Un'ottima dormita, come sempre nei rifugi, dove c'è
più silenzio, più buio e -di solito- più fresco che altrove: la
nostra sveglia è alle 05.00 ma già alle 04.57 salto sul letto
svegliando di colpo Marco, rendendogli il favore delle cento volte in
cui, questa notte, ha acceso la frontale. Essendo soli in camera
possiamo accendere la luce mentre ripieghiamo le coperte ed i sacchi-
lenzuolo: per abitudine sgombro sempre la stanza prima ancora di
scendere a colazione, portando giù ogni cosa dopo aver già preparato
lo zaino, in modo da non dover più tornare di sopra. Sabato 4 agosto
2007 si preannuncia con una tarda, gloriosa stellata sopra di noi. La
colazione nell'ampio salone perlinato ed adorno di fotografie,
bottiglie e cimeli alpinistici del Guide d'Ayas è quasi surreale, in
un'atmosfera ovattata, priva perfino di quei pochi colpi di tosse che
contraddistinguono ogni assembramento umano. Siamo veramente persi in
questo salone vuoto; per fortuna tutti sembrano stare bene, niente
teste reclinate tra le braccia, niente sguardi spenti in stile
abbandono del Titanic. L'impazienza di partire, l'ottima notte
di sonno ed il gelo dei bagni spingono a far presto: finisco di
prepararmi all'esterno, in apnea poiché sottovento al generatore.
Marco mi raggiunge e con la storica frase Démo putéi démo! scompare
nel buio della terrazza, già pronto, berretto da talebano e casco
nuovo in testa, frontale accesa anche se ormai si potrebbe leggere un
articolo del Codice civile: sono lieto d'essere qui con lui. Calziamo
i ramponi sulle roccette retrostanti il rifugio, dove solo pochi anni
fa arrivava il ghiacciaio, sbrogliando poi la bambola di corda e
preparando i rispettivi nodi: non ricordo mai il nome del mio, quello
che mi lega all'imbrago in vita, il nodo che consiste nel creare una
sorta di "otto", infilare il tratto di corda che avanza
nell'anello dell'imbragatura, farlo tornare indietro inseguendo o
ripetendo le curve dell'otto. L'importante è saperlo fare bene, per i
discorsi accademici c'è tempo: Marco esalta l'atavica necessità di
sapersi legare in cordata anche con i guanti, ma qui -cielo stellato,
ghiaccio rilucente, roccette comode, assenza di vento- un biellese si
trova così bene da non indossare alcun guanto, da non chiudere
nemmeno la giacca esterna. Il mio casco nuovo coglie l'occasione per
inoltrarsi da solo alla scoperta del mondo, lo fermo con un piede
prima che prenda troppo abbrivio lungo il pendio: va bene
l'entusiasmo!, ma qui siamo in alto e su un ghiacciaio, evitiamo gli
eccessi. Sono le sei in punto. Non aspettiamo le altre due cordate e
finiamo per prendere una traccia che punta diritta verso nord, alla
volta della seraccata alla base dei Breithorn, dove sono saliti i
baschi con i quali ho compiuto miracoli linguistici, ieri sera: la
traccia puntualmente finisce nel nulla lasciandoci nel bel mezzo di
una crepacciata dalla quale rientriamo con ogni cautela piegando
nuovamente a destra, verso l'ampia e comoda rampa glaciale che sale
verso est, dove c'è il Castore. Così sprechiamo il nostro vantaggio
e ci troviamo in coda, terza cordata su tre, ma non essendo impegnati
nel Trofeo Mezzalama la cosa non disturba il mio karma. Saliamo con
calma, mantenendo il passo impostato dalla cortese guida piemontese
per i suoi clienti, appena davanti a noi: alla mia destra vedo le più
belle cime ayassine appena sfiorate dalla prima, timida luce
orientale, o ancora silenti nel buio. Champoluc ed Antagnod
languono in una pozza nera, solo all'orizzonte più estremo rilucono i
giganti lontani, i più alti d'Europa. Procediamo verso est in modesta
pendenza descrivendo un'ampia curva al cui termine sorge la poderosa
parete W del Castore: il Polluce, da qui,
è ancora una bastionata scura sovrastata da qualcosa di bianco, di
triangolare. Verso i 3600 metri la pendenza si accentua moderatamente,
sembra sempre che da un momento all'altro si debba giungere al Colle
di Verra (3848), che in realtà non toccheremo mai: mi sento bene, ho
smesso di ricostruire i testi di Sinatra e de I will survive della
Gaynor da tempo, attento all'ambiente circostante. Camminiamo senza
pause fino all'attacco del Polluce, grazie a questo passo lento e
costante, che invece di stancare sembra ricaricare le batterie: uno schnörkel
perfetto, dove la mente vigila altrove e la gestione del corpo è
lasciata al pilota automatico. Penso all'equipaggiamento e controllo
di aver preso ogni cosa, dall'ormai inutile frontale al cordino in
kevlar, dai moschettoni -con o senza ghiera- al rinvio d'emergenza,
dal casco alla vite da ghiaccio, dalla coperta termica ai ricambi per
ogni cosa, dalle batterie agli occhiali, che ho inforcato sin da prima
dell'alba. Ho metaforicamente traforato perfino le monete pur di
risparmiare peso, ma ho abbondanza di tutto, qui, e ne sono lieto: c'è
anche un litro e mezzo di the caldo acquistato al Guide d'Ayas e che,
a causa dell'impegno dell'itinerario, porterò a casa intatto.
Passiamo sopra numerosi crepacci, alcuni aperti a poca distanza dalla
traccia: due, in particolare, corrono alla nostra destra prima di
riaffiorare dieci, quindici metri a sinistra, sotto alla traccia che
è comunque molto ampia e battuta. Siamo appena sopra i 3700 metri e
Marco, davanti a me, appare in netto contrasto con lo sfondo luminoso
del valico: finora siamo ancora in otto, divisi in tre cordate,
speriamo che il terribile affollamento prospettatoci così tante volte
non ci precluda la vetta, oggi. Penso spesso agli amici che hanno
tentato il Polluce per quattro volte, arrampicatori ben più
"ferrati" di quanto non mi senta al momento io stesso, e
tuttavia fermati dall'eccessivo numero di alpinisti in spazi
ristretti. Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Pieghiamo a sinistra in un'ampia curva che ci
porta sullo stretto ripiano glaciale sottostante le rocce della cresta
S, tornando indietro e sopra l'ampia rampa del Verra che ci ha portati
fin qui. Diamo le spalle al Castore ed abbracciamo in un colpo solo la
Roccia Nera ed i Breithorn,
così diversi visti d'infilata. L'alta e fiera cresta rossastra
declina fin sopra di noi in ampi cumuli di roccette scure, alternate a
golfi e pendii di sfasciumi, sassi, roccette e piccole bastionate
subito interrotte da altro pietrame. Le giriamo intorno, verso W,
circumnavigandola lentamente sul ghiacciaio, a pochi metri dai muti
pendii di sassi e sfasciumi: sono le 07.33 e mi trovo a 3800 metri
quando, notando che sia i taciturni tedeschi che gli amici brianzoli
si sono fermati per una sosta a base di té e cioccolato, propongo di
imitarli. Siamo in ombra ma non fa freddo, la Roccia Nera ci guarda
fingendo d'essere impegnata in tutt'altro, poso zaino e guanti (sotto
un sasso gli ultimi, non si sa mai che vogliano imitare l'allegra
scampagnata del casco) e riprendo fiato: qui il ghiacciaio si alza,
alle nostre spalle c'è un bel pendio che porta agli sterminati
pianori traversati dalla traccia sinuosa alla volta del
Breithorngleitscher e del Plateau Rosa. Prendo il waypoint roccette,
un immortale lampo di fantasia a N45 55.532 E7 46.827. Sono
piuttosto ottimista ormai, avendo sopra di me normali pendii di rocce
e pietrame in stile Tournalin, magari erti e noiosi, ma privi di
ghiaccio e ben visibili: saliremo di qui, poi chissà, qualche zig zag,
e vedremo di conoscere questo benedetto Polluce.. Via di salita: canalino
Ovest Prima i tedeschi, poi gli italiani, piegano
invece a sinistra, ormai sul versante W del Polluce: da qui vedo bene
la Porta Nera, siamo già più in alto del valico. Puntiamo infatti ad
un ripido canalino nevoso, circondato da bordi di pietrame sul lato
destro (S) e da bastionate rocciose più imponenti a sinistra (N), al
quale accediamo mediante facili pendii di neve dura e gelata,
descrivendo tornanti sempre più brevi, la corda che spesso trova
Marco sul tratto soprastante ed il sottoscritto ancora impegnato a
chiudere la curva. L'accorciamo brevemente, notando gli altri. Cinque
brevi rettilinei e siamo nel canalino vero e proprio, molto stretto ai
bordi e sempre più ripido: passiamo dai 30° iniziali a circa 40°,
finché non noto come la mia bussola, appesa al collo e sfilatasi
dalla maglia, sfiori ad ogni passo la neve. Stimo quindi sui 45° il
canalino, approssimativamente, ben più attento a questa patina gelata
che non cela nemmeno il pietrame sottostante: molto spesso ci
spostiamo sulla destra, su sassi instabili ma più grandi,
controllabili. Il canalino termina in un modesto spiazzo alle cui
spalle sorgono grandi denti di roccia rossa, parte della cresta S che
transita da qui alla volta del ghiacciaio sottostante: tra poche ore
rientreremo da questa parte, ma non dal canale. Al momento invece ci
si presenta un'infinita teoria di rocce e roccette, generalmente rosse
o più scure, spesso coperte di sabbia o pietrisco infinitesimale in
stile Testa
Grigia: negli interstizi si annida ostinata l'ultima neve,
l'ultimo ghiaccio perlaceo nei solchi più oscuri. E così sono queste
le famose rocce di cui ho chiesto tanto, mi dico,
congetturando tra me e me: PD, AD?, qui finora ho trovato un canalino
scivoloso ma nient'altro, sono andato con le ciaspole in posti più
ostici!, seppure per meno tempo. PD cosa vuol dire, in fondo? Le
classificazioni sono sacrosante, delineano un sistema comune di
percezioni, sul quale ogni persona baserà poi le sue idee, i suoi
progetti. Ma PD comprende questa roccetta scivolosa, questa curva non
segnalata in cui s'impiglia la corda, questo ghiaccio insidioso che mi
costringe a passare oltre a forza di braccia là dove basterebbe
allungare un piede? Io e Marco abbiamo tolto i ramponi, qui non si
incontrano nevai da mezzora e non voglio rovinarne le punte. Ho
indossato l'elmetto, il cui sottogola inspiegabilmente mi strangola,
impedendomi di deglutire e costringendomi a parlare con una sorta di
brontolio subvocale. Pieghiamo a sinistra, con una certa pendenza,
ormai siamo ben alti su questa cresta. Guardo il Castore e vado a
sbattere contro la picca gialla di Marco, legata allo zaino: meno male
che c'è il casco. Tutti sono fermi e la guida, metri sopra di me,
parla con calma ai clienti. Mi avvicino con cautela riavvolgendo la
corda ed ecco, alla fine!, la croce e delizia del monte Polluce,
mimetizzata in rocce e versanti color rosa chiaro e grigio: Scilla, la
cengia orizzontale. Monte Polluce: tratto
attrezzato Rocce ampie e lisce, rosate con minuziosi
intarsi più scuri, piegano ad angolo formando un vero e proprio muro
davanti a noi: alla mia sinistra ed accanto a me, alcuni grandi
roccioni isolati delimitano questa sorta di minuscola anticamera,
impedendo la vista della cengia. Solo stendendomi in tutto il mio
metro ed ottantasei, con l'aiuto della spalla di un lainatese di
passaggio e di qualche spinta, mi permette di anticipare la visuale
del tratto di roccia: il "muro" alla mia destra, che cade
dall'alto fin sopra di noi, crea un angolo perfetto. Oltre questo
angolo il versante sinistro scende verticale e perfettamente liscio,
piallato ad arte, talmente piatto da potersi apparecchiare!, avendo
stoviglie robuste e molto Bostik. Nient'altro. La guida ha già
percorso disinvoltamente la cengia ed ora spiega cosa fare ai clienti,
il primo dei quali.. Sì, è in piedi, allungato in tutta la sua
altezza sul preciso spigolo della roccia, una gamba a destra ed una a
sinistra, pur avendo i piedi uniti. Sopra di lui il muro sale compatto
con un piccolo, sottile tetto, una sorta di cengia capovolta; dietro
di lui, oltre la cengia, un massiccio sperone di roccia rossastra e
grigia aggetta in fuori, simile alla prua di un motoscafo. Sento le
azioni della nostra spedizione crollare vertiginosamente; mi occupo di
inezie, estraggo un cordino già montato in longe e
moschettoni, controllo un rinvio che ho portato per emergenza, nel
caso il cordino fosse assunto a miglior vita. Marco parla con
insistenza di Grigna e Grignetta sostenendo che, là, "è tutto
così": immagino una montagna rosata e piallata, mi propongo di
restarle alla larga. Intanto i nostri amici, tra scivoloni e stridii
di ramponi, sono passati in un forte tintinnio metallico. La risata
di Scilla, penso subito, influenzato da qualcosa che devo aver
letto di recente: Un
uomo mortale non potrebbe scalarla o salirvi neppure
se mani e piedi ne avesse venti. Perché
é liscia come se fosse levigata la roccia. Mi riscuoto, Marco è già alto sopra di me:
qui si va o si torna indietro sconfitti. Forse voglio passare un altro
anno a pensare al Polluce? Questo mi sprona e lo seguo: ora vedo
meglio a mia volta, comode roccette bombate mi fanno da scalino, qui
non vi sono punte e lame friabili come nell'ultimo tratto di cresta
che precede il Rifugio
Quintino Sella. Qui è tutto liscio, cortese, pulito, a suo
modo elegante: fin troppo. Sopra di me, esattamente lungo lo spigolo
perfetto del muro, scende una catena di due metri dalle solide maglie
metalliche: cade dritta fino ad un intaglio oscuro ai piedi del muro,
dove è bloccata alla roccia. Marco, in questo momento, vi aderisce
cercando la presa migliore. Dal termine superiore della catena ne
parte un'altra, identica, in orizzontale: essa, più lasca, descrive
una breve ansa verso il basso per risalire subito dopo, immota lungo
la parete piatta e rosea. Marco passa, appeso in stile windsurfer, i
piedi innaturalmente contro la parete. Tocca a me. In un salto sono
lungo la catena verticale, che mi arriva alla fronte: stendo la mano,
stacco la longe agganciandola alla seconda catena. La
sua voce è come di cucciola, nata da poco, ma
essa è un mostro funesto: nessuno gioirebbe
vedendola, neppure un dio incontrandola. Non sono affatto abituato a simili giochetti
su rilievi appena approssimativi, non con questo genere di scarpe da
ghiacciaio, con scafo rigido. La cosa si risolve in un unico, duro e
pesante lavoro di braccia, con i piedi impacciati: Marco sembra più a
suo agio, a quanto pare questa benedetta Grigna fa miracoli!, mi dico
pensando che, almeno, avrebbero potuto tenere più tesa la catena: la
prima era molto meno lasca. Qua sotto gli affioramenti della roccia
sono una serie di sottili rilievi resi lisci dal ghiaccio e dal
passaggio di migliaia di suole, ramponi e non. La catena tintinna
allegra -ecco la voce di cucciola- come quella di una innocente
altalena, ed invece sono qui, un piede di sbieco ed uno che non trova
presa, a far forza unicamente con i muscoli delle braccia e del
tronco. Un ultimo slancio, un vero colpo di reni sostenuto
animalescamente da una gamba che pure non ha presa e dalle braccia, ed
atterro al terrazzino di partenza del canalino, Cariddi. Alzo gli
occhi senza fiato: non posso dire di aver pensato dalla padella
alla brace, non essendo stato così, ma la sorpresa é forte. Ad
una distanza di circa due metri, spesso meno, si alzano due pareti
gemelle e lisce, intervallate da qualche roccione messo di traverso in
orizzontale, ogni tre metri circa. Sul lato sinistro scendono le
solite catene, la roccia è singolarmente liscia e priva di appigli:
qui però si incontrano tuttavia massi e basamenti più vicini gli
unti agli altri, si può salire facendo molta forza sulle braccia ed
incastrando i piedi e le gambe in modo da darsi una spinta. A metà
canalino mi ritrovo su un masso piatto, sorta di piccolo pianerottolo,
pronto a salire gli ultimi metri della parete che mi separa dallo
sbocco all'anticima, sopra di me: Marco sta completando proprio questo
passo, che offre buoni appigli sulla destra, come rientranze
triangolari simili a sciabolate in cui inserire la punta dello
scarpone. Mi trovo ancora attaccato con la longe alla catena
sottostante, obliqua, mentre tengo quella verticale su cui sta salendo
il mio compagno di cordata, controllando che non si impigli con la
nostra corda madre. All'improvviso, un forte strattone sulla
sinistra!, quasi volo dal pianerottolo, rischiando di cadere senza che
la longe si possa arrestare fino al tratto successivo di
catena, qualche metro più sotto. Si tratta di una guida anglofona,
non interessa sapere di dove: britannico o proveniente dal
Commonwealth, è un vero genio nel buttarsi su una catena strappandola
via, incurante di sbilanciare persone impegnate in passi difficili. Il
gentiluomo non si limita a questo, rispondendo serafico con un
perfetto insulto in ottimo italiano, trascinando letteralmente il suo
cliente paonazzo e salutandomi con un bel colpo di tacco sulla spalla.
PD vuol dire anche questo? Montagna difficile, poco spazio,
gente bestiale intorno? Vai alla Galleria fotografica -
Vai a GPS Approdo allo sbocco del camino, sotto ampie
roccette rosate e grigie, striate dai segni dei ramponi: a sud
sembrano saldate con la verde cresta del Mezzalama, con la gemella
morena grigia, un'unica rampa da qui al Lago Blu, là in fondo.
Impressionante, ad ovest, la Roccia Nera: la prua rossa di un
transatlantico ormeggiato sopra di noi, mentre calziamo i ramponi su
questi comodi sedili, in un piccolo spiazzo innevato e pianeggiante
che può accogliere parecchie cordate. Alla mia destra su un
piedistallo collegato ad un parafulmine si trova la statua nera di una
Madonna alquanto stilizzata, con Bambino, che sembra appena arrivata a
sua volta per guardare a valle, proprio su Ayas. C'è un bussolotto
per il libro di vetta, ma lascio perdere, meglio non scherzare con i
ramponi. Siamo a 3991 metri, sono le 08.35. In molti mi hanno messo in
guardia sul pendio sommitale, a volte affilato: vedo invece una bella
cupola innevata, con una traccia che ne segue fedelmente la cresta in
una lunga ed elegante curva verso destra, verso est, fino alla vetta
al di sotto della quale ritornano le rocce scure che scendono fino a
noi. Sono le 09.20 quando arriviamo in vetta, dove ci aspettano gli
amici brianzoli con la guida, tra strette di mano, fotografie e poco
vento: il panorama è grandioso ad est, sul Rosa, sulla parete ovest
del Castore, dove alcuni puntini coraggiosi sono impegnati nella
difficile salita in ombra. E' bello volgersi ad ovest e rivedere
l'intero versante del Breithorn Occidentale salito nel 2005, è
davvero un luogo magnifico. Scendiamo a malincuore verso Ayas e verso
casa, riposandoci con the e dolci ai piedi della statua della Madonna,
mentre altre cordate continuano a salire dal canalino. Discesa La discesa avviene in maniera piuttosto
caotica: moltissime persone salgono ad ogni costo, proprio mentre noi
-che certo non possiamo correre in verticale!- siamo impegnati nella
discesa da Cariddi. Comunque cerchiamo di parlare, di capirci: siamo
persone civili, che diamine!, mi dico con uno scatto di sdegno
piemontese per questa bolgia in cui tutti vogliono passare. Così si
intrecciano richiami su e giù per il canalino, mentre scendo cercando
appigli alla cieca fino al terrazzino mediano: Sir, please, come
slowly, passo, catena, No more than five seconds and we will
allow you to climb, recupero la mia longe e via!, altro
tratto. Da sopra, la guida ed i nostri amici ci invitano a far presto,
hanno freddo lì bloccati: mi dicono di scendere e di fregarmene, di
fermarli, di scendere. A sei centimetri dal mio piede sinistro
ci sono tre teste protette da altrettanti elmetti arancioni, sei occhi
che guardano in alto, corde e catena già tese, moschettone
inspiegabilmente già a livello del fermo a fianco del mio ginocchio.
Ho tolto i guanti ma ora ho freddo e ho le mani graffiate. "Ma
volete che gli scenda in testa?" Nervosismo, anche Marco,
che pure mi è di fianco, è impaziente. Quando sotto di loro spunta
una quarta testa, questa volta blu, sbotta di sbrigarsi, di farci
passare. Confusione: la guida risponde in tedesco alla sua truppa, con
calma, e comincia a spingere la ragazza per i due metri restanti fino
al mio terrazzino. Lei a metà si sbilancia, urta la roccia con spalla
e fianco, mi guarda mentre sgancio fulmineo la longe prima di
ripetere l'esperienza del vero gentleman inglese. L'aiuto come posso,
ricordando che sono su una sorta di vaso da fiori in un buco verticale
senza assicurazione, mi passa sopra, gli scarponi quasi in
volto. Le corde si intrecciano e dall'alto urlano: la guida mi tocca
gentilmente uno scarpone e mi chiede, in tedesco, se voglio scendere.
Mi pare una follia: abbiamo già l'intera corda impegnata fino ai
brianzoli, in alto, la ragazza tedesca è sopra di me, cosa serve
complicare ancora tutto? Marco mi fa cenno di scendere. Now
I'll come down, then you'll start climbing again, ok? Scendo sul masso dei tedeschi, ancora più
ristretto del mio!, e soprattutto sovrastato dalle pareti laterali che
qui sono quasi curve: dobbiamo sporgerci tutti in fuori, per starci.
Sale il secondo cliente, ricordo un Berghaus rosso, poi la guida che
mi stringe la mano, per chissà quale motivo: ha sorriso quando lo ho
chiamato Sir, sarà per questo. Molla, molla, molla tutto e
fai forza sulle braccia, ripete Marco e vorrei veramente
rispondergli male, male sul serio. Faccio come dice e prendo un colpo
fortissimo sullo sterno, sento l'aria uscire dai polmoni. Non guarda
quasi. Marco è già impegnato sulla cengia, quando Scilla lo
tradisce: scivola dagli appigli inesistenti per i piedi, resta
attaccato per le braccia e la longe, sbatte contro il muro,
raggiunge in qualche modo la catena verticale e ne gira l'angolo.
Provo più volte ma non riesco a trovare una presa per lo scarpone,
nemmeno un terzo della suola -in lunghezza- si adatta alle stupide
escrescenze scivolose!, cado. Non ci passo. Rabbia! Mollo la
corda, gliela tiro dietro, torno all'ultimo terrazzino dove siamo in
tre, io ed i brianzoli: una coppia di tedeschi scende in doppia
proprio sopra di noi, calandosi tra le nostre teste, un italiano
isolato sale -con scarponi non rigidi, noto con invidia- sopra di
noi, incastrando la corda negli zaini e nelle picche di tutti. Mi
trovo senza longe, quando devo far passare uno dei clienti
italiani verso la cengia, quasi vado giù dal bordo inferiore del
canalino. Stupido posto!, guarda che caos, avendo cinque
minuti di calma si passerebbe tutti! Guardo un altro
inglese che, da appena oltre la cengia, mi fissa contandoci e
riferendo tutto a spettatori invisibili, sulle roccette sotto di lui. Sir,
here we've been waiting for half an hour. Now we accomplish our
descend, then you'll start going over, okay?
L'ho quasi urlato, l'inglese scompare, la cengia è libera. Ora
sono legato ma la corda degli amici brianzoli mi sale tra le gambe!,
mi prende la destra, mi tira verso il basso: né lui può far niente,
il primo della cordata lo tira a sua volta, non riesce a scendere
dalla catena verticale. Soffio come una bestia incattivita, Marco
continua a parlare a sproposito da sotto dicendomi cose come bravo
così mentre vorrei che pensasse a far spostare questa gente, ma
non vedono che se ci chiudono l'uscita restiamo tutti qui in eterno?
La catena schizza di lato, troppo lasca!, scivolo, resto su solo a
forza di braccia, tiro con ogni forza con il destro fino a sbattere
oltre, facendo perno sul piede sinistro e ruotando. Non resta che
allungare il braccio, sganciare il moschettone e riagganciare la longe
alla catena verticale, mentre perdo l'equilibrio. Abbraccio non la
catena ma lo spigolo verticale, trovo un appiglio, uno dei brianzoli
mi suggerisce di scendere a destra, giù i piedi, scivola, scivola..
Due metri e sono sulla roccetta. A terra. Servono cinque minuti per
calmarmi e non rispondere male, mandare qualcuno a quel paese. Questo
pezzo, questa confusione, non mi sono affatto piaciuti. Non amo queste
cose e se mi parlano ancora della Grigna, stavolta me la prendo sul
serio. Altre roccette, altre curve, altri sassi da
non smuovere. Più volte indico una pietra - Sir, pay attention,
this rolls! - ai cortesi alpinisti biondi che mi seguono,
ricevendo grandi sorrisi e oh- kay in risposta. Siamo una fila
indiana collegata da corde cortissime, qui non si rischia di cadere ma
di smuovere qualcosa.. E pochi, noto, indossano elmetti. Ultimo tratto
duro, a sinistra del canalino nevoso -ora, un ripido ruscello- salito
durante l'andata: un tratto di roccette rosse e spioventi, collegate
alla "pinna" della cresta S, un'altra coda. Le guide
avvolgono la corda intorno ad un piatto masso, calando i clienti:
Marco fa la stessa cosa con me. La parete è verticale, lievemente
aggettante in fuori: un masso che si sporge, al di sotto del quale c'è
il vuoto che corre lungo la cresta meridionale. Ma verso destra si
trovano subito molti spuntoni, uno sopra all'altro, così frequenti da
risultare fastidiosi. Scendo, il volto prima contro e poi sotto il
masso, arrivo ad un inizio di cengia sassosa, altri spuntoni, chiamo
Marco che in pochi minuti mi raggiunge. Qui riprendono i tratti ripidi
di roccette scure, intervallati da curve sassose e lastre, senza
ghiaccio, a picco sul versante SE del Polluce, la bella cresta S alla
nostra destra e sempre più in là: alla fine la puntiamo decisamente,
valicandola con attenzione in un intaglio pieno di barbe e punte
taglienti, accendendo ai pendii occidentali della cresta stessa,
semplici sfasciumi -inizialmente ripidi, poi sempre più comodi. Mi
ritrovo quasi al waypoint roccette (circa 3800 metri, N45
55.532 E7 46.827), poco più a sud: da qui accediamo al ghiacciaio
dopo aver indossato i ramponi, superando con molta cautela almeno una
decina di crepacci apertisi tra il Polluce ed il Guide d'Ayas, al
quale rientriamo alle 12.30. I simpatici brianzoli ci hanno preceduto
di poco, festeggiamo insieme ringraziandone la guida, sempre cortese e
disponibile, che ci ha certamente aiutati. Ripartiamo alle 13.20 arrivando con calma,
rilassandoci, al Mezzalama. Qui brindiamo trovando con piacere due
amici saliti appositamente per venirci incontro: la discesa, insieme a
loro, è molto meno monotona e più piacevole. Ripartiamo alle 15.55,
allontanandoci ancora dal magnifico Polluce, dai suoi antri lisci e
ristretti, dalle persone che, ancora una volta, ne hanno raggiunto la
vetta. |