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Monte Castore (2004)

 

Una vetta di 4221 metri di quota, il mio primo, tanto atteso “4000”: in altre parole, tutto un altro mondo. Un’esperienza che mi ha piacevolmente sorpreso, oltre che convertito al vero alpinismo dei grandi ghiacciai. Il Castore domina Ayas con la sua lunga cresta appena visibile tra il Palon di Resy ed il Mont Rouge, anche se è perfettamente visibile dal Pratone Varasc e da altre zone della vallata. E’ soprattutto la sua inconfondibile vetta a forma di piccola piramide bianca ad attirare lo sguardo sulla destra del “panettone” del Polluce (4091 metri), il suo gemello.  Il Castore è il più alto e sudorientale dei due gemelli, una bella piramide bianca impreziosita dalla lunga cresta che porta alla sommità. Fu scalato per la prima volta nel 1861 da una guida di Chamonix, Michel Croz, che accompagnava William Mathews e F. Jacomb. Si tratta di una montagna molto elegante, che presenta un difficile versante meridionale, una Parete Nord quasi altrettanto impegnativa, e soprattutto la bellissima e più frequentata Cresta Sud- Est. Il Monte Castore, da un punto di vista prettamente geologico, è formato da rocce d'origine europea, non oceanica o africana. Queste rocce sono, in realtà, formate da gneiss granitici e da antichissimi paragneiss che l'orogenesi ha mutato in micascisti superficialmente brunastri. I paragneiss formano l'intera parete meridionale del Castore, la cresta per il rifugio Quintino Sella al Felik, mentre gli gneiss granitici sono paragonabili a quelli del Monte Bianco. Come eventuali rischi, c’è da tener conto della possibile caduta di valanghe sopra il Colle di Felik e lungo i tratti più ripidi; inoltre, il tratto di cresta immediatamente precedente la vetta è ristretto e sottile, difficile da percorrere con forte vento.

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Ecco il resoconto dell’ascesa per la via normale della Cresta Sud-Est, effettuata da Varasc.it, il 14-15 luglio 2004. Ulteriori salite al Castore, relative agli anni 2007, 2008, 2010, 2011, 2013 sono disponibili nel sito.

Partito dalla Bettaforca alle ore 14.45 del 14 luglio, ho raggiunto il rifugio Quintino Sella alle 17.25: per maggiori informazioni circa questo importante ed impegnativo percorso, si consiglia di consultare l’apposita sezione di questo sito. Dopo aver pernottato nel rifugio (la sveglia era alle cinque, la seconda) siamo partiti per le sei di mattina. La nostra cordata era così composta: una guida di Ayas, Marco Spataro, il sottoscritto ed altri due alpinisti. La giornata si preannunciava serena, malgrado persistesse una certa incognita: il vento potentissimo che, scendendo dall’ampia cresta davanti a noi, spazzava ogni cosa facendo cadere le persone, scompaginando le cordate, sollevando neve e scagliando pezzi di indumenti –guanti e berretti- nell’atmosfera. La prima parte dell’impresa è stata, vento a parte, piacevolissima: una lunga camminata con racchette telescopiche e ramponi sull’ampio pianoro del Ghiacciaio di Felik, alle spalle del Quintino Sella, fino ai piedi dell’omonimo Colle. Il panorama era già spettacolare, il bianco accecante, il vento tremendo ci tagliava la faccia e ci assordava: in altre parole, era tutto bellissimo. Non avrei scambiato quei momenti con niente al mondo. Arrivati ai piedi del Colle, però, la situazione cominciava a presentarsi problematica. Le raffiche più forti non avevano problemi a spostare di parecchi passi uomini del peso di ottanta, novanta chili: come avremmo fatto in cresta, dove sicuramente lo spazio sarebbe stato ben più ridotto? Davanti a noi, si vedevano solo persone cadere ritmicamente lungo il ripido pendio che portava al Colle: molte cordate erano ferme, altre già tornavano indietro. Sugli ultimi tratti di pianoro, spazzati dal vento che li piegava in due, si vedevano gruppetti di alpinisti unirsi per discutere: due parole più intuite che ascoltate, neanche il tempo di rispondere qualcosa e già ci si doveva buttare di nuovo sulle racchette per restare in piedi. La nostra guida rallenta, scambiando qualche parola più avanti. Ci comunica quindi che l’unica cosa da fare è provare a piegare a sinistra attraverso il ghiacciaio, fino alla Punta Perazzi, dove forse avremmo trovato un po’ di riparo; questa elevazione è a circa 800 metri in direzione sudovest rispetto al Colle di Felik. Vuole ricordare il senatore Costantino Perazzi, alpinista appassionato del Monte Rosa che si adoperò per l'edificazione del rifugio Quintino Sella. L'idea era di aspettare un po’ per vedere se il vento cessava o meno, poiché, se restava così, il Castore era del tutto fuori portata. Arrivati sotto la Perazzi, però, ci accorgemmo di aver fatto un passo falso. Il vento era ancora più forte e provocava scivoloni e cadute, sbilanciava i nostri passi, trasformava la cordata in una linea curva al posto della classica forma in fila indiana. Il tempo era sereno e limpidissimo, le poche nuvole viste dal Sella verso le sei e trenta erano state spazzate via: tuttavia il vento toccava i novanta all’ora, ed in campo aperto perfino io faticavo a restare fermo, nonostante i miei ottanta chili, i ramponi, i bastoni e tutto l’equipaggiamento. Decidemmo pertanto di tornare sotto al Colle, che almeno c’era sembrato più riparato. Tagliammo nuovamente il Ghiacciaio di Felik e tornammo sulla traccia, molto più marcata rispetto all’andata: già molte cordate rientravano sconfitte, saluti in francese e tedesco si incrociavano per essere strappati via dal vento. Sotto al Colle, in effetti, la forza del vento era inferiore: si riusciva a stare benissimo in piedi, anche se non si poteva assolutamente rischiare di estrarre una macchina fotografica o qualsiasi altra cosa. Bramavo di togliermi un guanto per massaggiarmi brevemente il volto semicongelato, pur sapendo benissimo di non poterlo fare: le parole della guida arrivavano solo al secondo della cordata, così ci raggruppammo tra una cacofonia di materiali che ci sbatacchiavano addosso. Sulla nostra destra, imponente come non mai, il Lyskamm Occidentale ci sfidava a breve distanza, le sue feroci cornici che splendevano al primo sole.   In breve, si decise di tentare almeno di salire in cresta per vedere quali fossero le condizioni lassù; la guida intuiva che il vento si sarebbe alzato di quota. Davanti a noi si trovava il ripido pendio del Colle di Felik (4061 mt.), alcune decine di metri di neve fresca e luccicante attraversata in diagonale dalla sottile linea di neve smossa della traccia. Lassù, dove si scorgeva il cielo, il vento fortissimo faceva danzare fantasmi di nevischio che riflettevano la luce in giochi affascinanti, i celebri spiriti dell'aria amati da Kurt Diemberger. Cominciammo a salire mantenendo le distanze, utilizzando questa volta le piccozze. La neve era abbastanza compatta e non si affondava, i ramponi permettevano di salire senza slittare. Il vento mi investiva solo dalle spalle in su, obbligandomi a salire tenendomi curvo ma senza impacciarmi troppo; la traccia offriva punti di appoggio ben marcati, contornati dai profondi fori delle piccozze che ci avevano preceduti. Valicato il ripido pendio, si cominciò a salire verso sinistra, in cresta. Davanti a noi il sole, nubi dense e velocissime che salivano ai nostri piedi e, più oltre, l’immensa distesa dei ghiacciai svizzeri: il nostro versante italiano, pur tanto imponente dal fondovalle, ne sembrava solo l’ultimo baluardo. Le vette ed i ghiacciai si stendevano in ogni direzione davanti a me. In cresta, purtroppo, il vento era ancora forte: abbastanza rabbioso da sollevare vortici di finissimo nevischio che mi ferivano il volto, riempiendo gli occhiali ed il cappuccio della giacca. Qui bisognava prestare molta attenzione, perché, come preventivato, lo spazio era inferiore alle ampie distese sottostanti il Colle di Felik: nonostante il vento non avrei potuto permettermi troppe deviazioni laterali. In più c’era da mantenere costantemente la distanza tra i componenti della cordata. Presto arrivammo all’ampia e bellissima sella bianca del Colle di Felik, finalmente a quota 4061 metri. Il mio battesimo, il mio primo 4000! L’annuncio della guida mi entusiasmò, malgrado il vento. Il mio primo 4000! Un’emozione difficile da descrivere, ma sicuramente indimenticabile. Sempre lungo la cresta arrivammo poi presso il cocuzzolo nevoso della Felikjoch Kuppe, una cima minore di 4093 metri. Ancora vento, ancora nuvole dalla Svizzera, strappi alle corde e scarponi a tratti sommersi o quasi respinti dalla neve della traccia, che del resto mai si avvicinava troppo ai baratri del versante italiano. C’era sempre un piccolo parapetto laterale di neve compatta che veniva naturale utilizzare come appoggio per le piccozze, che a volte il vento riusciva a deviarci tra le gambe. Arrivammo così alla Punta di Felik o Felikhorn (4174 metri), dove la cresta cominciava ad assottigliarsi sensibilmente tra continui saliscendi. Seguì l’imponente Anticima Sud Est (4185 metri), dove il panorama era semplicemente grandioso: perfettamente visibile ed ingannevolmente vicina, più avanti sulla destra, la vetta triangolare del Castore. Un’ultima difficoltà si presentava, però. La guida ci fece sostare e ci ammonì scherzosamente: da questo punto in poi, l’importante era non scivolare, o “ci raccolgono tutti con il cucchiaino”. Vedendo le nostre facce, non mancò quindi di consolarci avvertendoci di aver cura di cadere sul versante italiano, “Così i nostri parenti non dovranno spendere troppo per andare a riconoscerci”. Mi sembrava che queste parole fossero dirette al membro più inesperto della cordata, cioè al sottoscritto: tuttavia ero arrivato fin lì senza superare praticamente nessun altro, a riprova del fatto che il vento aveva sconfitto le altre cordate, e di certo non sarei tornato indietro senza quella benedetta vetta che ormai intravedevo. Confortato da tali prospettive, quindi, prestai molta attenzione a cosa mi aspettava. Ciò che scorgevo non era molto piacevole: niente più cresta tondeggiante, niente più traccia ben incassata e debordata da comodi parapetti. La cresta si assottigliava in modo impressionante, tanto da chiedermi se ci sarebbe stato uno scarpone per volta (!): curvava a sinistra, saliva, scendeva, restava in piano per qualche decina di metri, saliva ancora e quindi.. La vetta. Che però non sembrava più così vicina.

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Ci inoltrammo in quell’ultimo, rischioso tratto. Ringraziavo il Signore di non soffrire di vertigini ed ero conscio che, nonostante tutto il mio allenamento e vent’anni di montagna, non avevo mai visto niente del genere. I pendii italiano e svizzero sembravano sfidarsi nel diventare sempre più ripidi, a coltello: ogni volta che guardando in basso scorgevo una parete particolarmente verticale, bastavano pochi passi nel vento per scorgerne una ancora più ripida. Molto più in basso di noi, sulla sinistra, il versante svizzero scendeva per declinare su pendii innevati e vergini; quanto al versante italiano, con un colpo d’occhio potevo spaziare dal Lago Blu all’Emilius, dal Bianco alla cresta di confine tra la Valtournenche ed Ayas, piccola ed aggraziata come una semplice piega erbosa nel terreno. Superammo certi punti in cui la cresta non poteva ospitare neanche un solo rampone, figurarsi un intero passo. A complicare le cose, il vento ricominciò a soffiare con forza rinnovata, quasi a prendersi gioco di me: ci fu qualche istante terribile in cui la neve della vetta, ormai vicinissima, pensò bene di riempirmi gli occhiali da sole, già abbastanza colpiti in precedenza. Il vento mi strappava via dalla bocca l’aria di cui avevo tanto bisogno: quando mi voltavo verso la Svizzera per inghiottirne un po’, mi sferzava impietosamente il volto. Facendomi forza continuai a camminare con la massima precauzione, saggiando ogni passo con attenzione ed irrigidendomi contro gli assalti del vento che mi avrebbe voluto far tornare al Sella per la via più breve… Non muovevo un passo senza prima aver ben affondato la picca, pronto ad aggrapparmici al primo segno di perdita dell’equilibrio. Non ero mai salito così in alto, ma non sarei stato certo io a rovinare la giornata. Il nevischio delle ultime raffiche mi riempiva il colletto della giacca, rinfrescandomi piacevolmente mentre ero così sotto sforzo. Gli ultimi passi, gli ultimi sforzi, ed ero in vetta al Castore. Mi sedetti pressoché sfinito sull’esiguo spazio piramidale della vetta, dando le spalle al vento svizzero, guardai l’ora senza in realtà staccare gli occhi dal panorama totale che mi si offriva: uno scenario incredibile, un salotto un po’ freddo e scomodo, uno spettacolo da 4226 metri di altezza. Perfino i jet diretti verso la Francia sembravano più vicini.   La guida ci strinse le mani e scattò per me qualche fotografia. La vetta del Castore rispecchia l’impressione che se ne ha dal fondovalle: una piccolissima piramide nevosa, squisitamente triangolare ed appuntita. Noi c’eravamo seduti sul piccolo pendio inclinato verso l’Italia, a mezzo metro circa dalla sommità vera e propria; più in là, tra le basse nuvole provenienti dal territorio elvetico, spiccavano i 4205 metri dell’Anticima Nord. Scorgemmo anche il Polluce e, più oltre, i contrafforti della Rollin. Finalmente potevo vedere cosa c’era oltre la Roccia Nera, la Schwarztor che tanto m’affascinava da bambino. Pochi metri sotto i nostri piedi, su una minuscola terrazza nevosa sottostante la cima, ecco invece tre alpinisti pesantemente bardati che ammiravano a loro volta il panorama italiano: gli unici tre ad aver scalato il Castore quella mattina, oltre a noi quattro. Tre minuti più tardi cominciammo a rialzarci per rientrare, prima di rischiare oltre: per quanto mi riguardava avevamo già tentato fin troppo la fortuna, non volevo certo aspettare che il vento della mattina si ripresentasse. Non fu così. Ripercorsi la sottilissima cresta finale, un passo alla volta: la cordata si era capovolta, la guida occupava l’ultimo posto, io il secondo. Procuravo di muovermi con lentezza e precisione, pronto ad affondare con tutte le forze la picca nella schiena di quell’immensa Moby Dick candida, se fossi scivolato: fu con una malcelata soddisfazione che rimisi i piedi sulla traccia più ampia e battuta tra l’Anticima Sud- Est e la fiera Felikhorn, sulla quale piccoli fantasmi di neve danzavano ancora. Potevo ora osservare meglio il meraviglioso versante svizzero, i suoi alti pendii ora aggraziati e degradanti, che quasi mi invitavano a percorrerli verso chissà quale destinazione nascosta. Davanti a me, solo la Felikjoch, che ora mi sembrava ben più bassa di quel che m’era apparsa nell’andata, quasi avessi scalato l’Everest e non il Castore. Poco più in là, l’apripista genovese scivolò lievemente, facendomi scattare sulla mia picca: il mio compagno di cordata si complimentò per la mia prontezza, malgrado la guida sostenesse che mi aveva trascinato giù. Avrebbe invece dovuto augurarsi che non fosse stato così, poiché tra me e l’apripista rasentavamo i due quintali di peso, mentre gli altri due erano decisamente più minuti.  

Le cose andarono bene fino all’altezza del Colle di Felik, da dove si tornava a scorgere la minuscola sagoma grigia del Sella. L’apripista, impegnato come tutti noi a battere la piccozza contro i ramponi per far cadere gli zoccoli di neve fresca che vi si insinuavano, si ramponò accidentalmente la gamba sinistra con lo scarpone destro: un incidente non notato dagli ultimi due fino alla Sella. Il ripido pendio del Felik fu l’ultimo ostacolo: come sempre, il rischio di scivolare era più elevato nella discesa che nella salita. Con qualche precarietà e cercando di tenere il peso indietro, come mi consigliava ripetutamente la guida, tornai infine al Ghiacciaio del Felik, ora deserto. Tornammo al Sella ben prima di mezzogiorno, prendendocela calma nel saldare il conto, consumare qualcosa, andare in bagno e riposarsi un po’ prendendo il sole con Gressoney negli occhi ed una piacevole brezza sul volto. Tutt’intorno, zaini ed attrezzature asciugavano al sole, mentre i primi escursionisti raggiungevano il rifugio dalla Bettaforca. Notai che la mia piccozza aveva l’impugnatura tutta sbreccata a causa dei forti colpi con cui avevo rotto i tanti zoccoli di neve fresca che minacciavano di vanificare la presa dei ramponi. Era stata una grande avventura.  La guida ci illustrò brevemente la sciagura accorsa pochissimi giorni prima (mercoledì 7 luglio 2004) agli alpinisti francesi che, provenendo dal rifugio delle Guide d’Ayas al Lambronecca, avevano tentato di scalare il Castore scendendo poi al Sella. I sei avevano deciso di approfittare di un’ingannevole schiarita in quota, sul fare della sera, partendo dal Lambronecca attorno alle 17.00, un’ora ormai tarda. La giornata era stata molto nuvolosa, con rovesci che avrebbero purtroppo caratterizzato anche i giorni successivi, impedendo i soccorsi con gli elicotteri e rallentando le squadre di terra. Giunti in cresta al Castore quando ormai era scesa l’oscurità, i sei erano stati travolti dalla bufera: uno dei superstiti avrebbe raccontato di essere giunto in vetta al Castore all’incredibile ora dell’una di notte. L’apripista della cordata, scorgendo forse le lontane luci del Sella, avrebbe imboccato un pendio ancora lontano da quello corretto, sottostante cioè il Colle del Felik: in altre parole sarebbero scesi prima di aver completato la cresta. La variazione di pendenza ha poi fatto il resto: la cordata è precipitata per centinaia di metri, provocando la morte del trentanovenne Marc Monier (la guida alpina di Briançon), della cinquantaquattrenne Michelle Bourmeyster, del sessantaseienne Jean Bourmeyster e di Joelle Lefebvre. Sono miracolosamente sopravvissuti il quarantacinquenne Hugues Moreau, di Strasburgo, e la cinquantasettenne Annick Coatleven, ricoverata in fin di vita ad Aosta. Il Moreau ha poi accusato la guida, cosa che personalmente non m’è piaciuta –è facile scaricare la colpa su chi non c’è più: sicuramente la guida avrà sottovalutato le intemperie, ma come notavamo al Sella, qualcuno deve ben avergli fatto pressioni per convincerlo a tentare l’impresa. Comunque lo strasburghese ha raccontato di aver passato la notte tentando disperatamente di guadagnare il Sella, scendendo con piccozze e punte dei ramponi su pendii ripidissimi nella tempesta. All’improvviso sarebbero scivolati in una babele di corde intrecciate, cadendo tra le rocce ed i ghiacci per più di trecento metri: i suoi compagni sarebbero morti sul colpo. Moreau, gravemente ferito ad una gamba, è invece riuscito a recuperare uno zaino e ad allontanarsi per qualche decina di metri; infine, il giorno dopo, scorse un elicottero venuto a cercarli. Malgrado questa sciagura, il Castore non è un mostro: io l’ho affrontato ed è stata un’esperienza bellissima, stupefacente, da riprovare. Non è questa la sede per un discorso sui rischi della montagna, rischi che comunque ognuno di noi accetta tranquillamente quando prende in spalla lo zaino e saluta i familiari: piuttosto, posso ripetere uno scontato, ma sempre necessario, invito alla prudenza. Come  ha detto la signora Dina Chasseur di Frantzé  

“..Montagna! Tu sei bellissima, ma tremenda!” 

 

      In Rispettosa Memoria di Marc Monier, Jean e Michelle Bourmeyster, Joelle Lefebvre, Monte Castore, notte tra il 7 e l’8 luglio 2004 

  In Rispettosa Memoria di Remo Passera, Guida alpina di Gressoney, Monte Castore, 1970

   

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