Ritorno alla Roccia Nera
La sua prua rocciosa simile ad una Dreadnought, dritta ed affilata come il rostro di un'antica trireme o di una nave di linea delle vecchie Marine a vapore, protesa sull'ampio abisso della Porta Nera; l'elevato trespolo roccioso in cui è annidato il nero casotto del bivacco Rossi e Volante. L'aggraziato ed ampio podio di neve al disopra della casetta, usuale punto di sosta e riposo per generazioni di alpinisti; l'erta ed ampia rampa a sud della lunga dorsale sommitale, traversata da innumerevoli solchi, tracce, venature di ghiaccio più duro e di neve farinosa, perlacea. Infine, l'alta cornice superiore che, aggraziata ed insidiosa, corre dalla vetta vera e propria fino alla cuspide della Quota 4106, premessa ed ingresso dei Breithorn. Tutto ciò, ancora una volta, è la Roccia Nera: avventura di sole e vento, neve ghiaccio e roccia, vissuta appieno ed appieno gustata domenica 28 agosto 2011 in cordata con gli amici quotazerini Manuela e Paolo. Vai
alla Galleria fotografica - Vai a GPS Schwarzrüken,
Schwarzhorn, Roche Noire: lingue ed inflessioni differenti per un sogno comune che ha attraversato,
indenne, i secoli e le anime di generazioni di alpinisti, di amanti
della montagna. Siamo
saliti quassù sabato 27 agosto, fermandoci al rifugio Guide
d'Ayas al Lambronecca: un arrivo a tarda sera, poco prima
della cena prevista per le 19.30, una salita resa suggestiva sia dai
raggi ormai fortemente obliqui del sole sul Grande
Ghiacciaio di Verra, sia dagli esotici ed impensabili
racconti africani di Manuela, appena tornata dalla Repubblica
Centrafricana. Non incontriamo più nessuno tra il rifugio Ottorino
Mezzalama e le rocce di Lambronecca; ci accoglie un rifugio
pieno ma ordinato e, meraviglia!, la cameretta numero 1 tutta per noi. Legno
perlinato e caldo, quattro letti a castello, una finestrella adiacente
sul caos di seracchi a nord: in alto, ancora al sole, brilla Lei. La Roccia
Nera, la Sirena che ci ha adescati e chiamati sin dalla metà di
luglio, allorquando avevo prenotato i posti al rifugio. Culmine
di un'estate atipica, con maltempo ed instabilità a luglio, qualche
giorno di bel tempo stabile solo ad agosto: svariate ascensioni sui
Quattromila pianificate con cura, rimandate più volte ed infine
annullate. Amici costretti a rinunciare per la fine delle vacanze, tempo
limpido solo quando mi trovavo al lavoro a Milano; frustrazione e senso
di surrealtà, unito alla consapevolezza di non poter combattere il
meteo, da sempre immutabilmente estraneo al volere umano. Il
13 agosto, finalmente, va in porto una bella e classicissima ascensione
al Castore, questa volta dalla
normale: la sesta volta su questo monte, la quinta sulla sua vetta
aguzza e nevosa, ostacolato, aggredito e baciato da un vento al contempo
forte e lussurioso, nervoso ed ammaliante come le carezze e gli strappi,
i morsi di un'amante furiosa ed imprevedibile. In vetta, il primo
sguardo cade sull'abisso ombroso ai miei piedi: il Polluce,
e di nuovo lei. La Roccia Nera, salita nel tardo agosto 2010 con l'amico Luca, gestore del Mezzalama. Non ha avuto senso pianificare nuovi ed inediti Quattromila con questo meteo infingardo ed imprevedibile; l'estate, anzi il mese di agosto, mi ha regalato grandi e belle escursioni con vecchi e nuovi amici!, ma questo sarà il mio secondo Quattromila. Il destino ha concesso e negato; anche il primo fine settimana di settembre, sabato 3 e domenica 4, si rivelerà inclemente e costringerà a cancellare l'ennesima e forse ultima ascensione per questo anno 2011. Vai alla Galleria fotografica - Vai a GPS L'ascensione
rivela le sue sottili differenze, rispetto alla precedente del 2010.
Ampi crepacci, facilmente valicabili al disopra del Guide d'Ayas, in un
caos calmo di fratture bordate di nero e grigio; più tracce, spesso
costrette ad improbabili svolte ed addirittura, in un caso, ad un
ripiegamento strategico tra due ponti di neve. Sembrano cicatrici
selvagge sul muso di un segugio, di un vecchio e slabbrato cane da
caccia; buie più del nero circostante nelle prime ore di cammino di
domenica 28 agosto, nere e minacciose nel sole accecante del rientro.
Nuovi crepacci sotto al Colle di Verra, ove cade la cresta meridionale
del Polluce, ove le cordate si dipanano pazientemente verso destra, alla
volta della Ovest del Monte Castore, o
verso sinistra, per il Monte Polluce, la
Roccia Nera, i Breithorn Ben
diverso dalla pur ripida ed estenuante rampa verticale del 2010, a
gradini profondi ed affiancati, che pur costringendo a lunghe falcate
simili ad una scala a pioli permetteva al piede di entrare quasi
completamente. Ore 07.45, in vetta ai 4075 metri della Roccia Nera,
nuovamente. Valli e ghiacciai sul versante elvetico si concedono ai
nostri sguardi, appena velate di nubi basse, sotto il sole forte ma non
troppo caldo; il Rosa ed i Lyskamm scintillano profilandosi alla nostra
destra, l'erto cammino di ronda dei Breithorn si erge a sinistra, come
gli spalti turriti di un antico krak des chevaliers. Poche foto
reciproche con due ragazzi tedeschi, che preannunciano la nostra
fotografia come un po' against the sun.
Respiri, sguardi, è un ritorno ma pare di essere quassù per la
prima volta, novizio ed inerme, quasi avessi lasciato a valle tanti anni
di montagna e di salite, di arrivi in vetta, di semplici passeggiate per
prati e boschi o di ascensioni impegnative, per morene e pietraie,
rocce, ghiaccio e nevai. Provo a salutare verso il Polluce
e due puntini, presso la statua della Madonna e del Bambino, levano un
braccio a destra: mi vedono? Festeggiano l'uscita dal tratto più duro,
o segnalano qualcosa ad altri invisibili puntini, che per poche ore
condivideranno con me il privilegio raro, elitario, unico di esistere
quassù? La
discesa è un vortice chiuso e negativo, di sudore e fatica. Fatica e
dolore alle caviglie, malgrado gli ottimi scarponi nuovi, i famosi
Triolet che malgrado Castore e
Roccia Nera mi lasceranno i piedi intatti. Le tacche sottili nel duro
pendio consentono solo a due o tre lame dei ramponi di far presa, il
resto del piede è stolidamente piegato in aria, come poggiato in piano
su un gradino inesistente: se la caviglia cedesse, se il piede si
piegasse brevemente a valle, volerei. Come sarebbe diverso se potessi
far entrare il piede di punta, disarrampicando, o di tallone, tornando a
valle come chi discende una normalissima seppur ripida scala! Lo scorso
anno, quasi non sentivo il bisogno di affondare la picozza ad ogni
passo. Potevo perfino ammirare l'alta Ayas, così, seppur camminando con
le dovute cautele per non ramponarmi da solo ed inciampare. La
picca deve sempre entrare con forza nel pendio, e spesso la scorza di
ghiaccio la respinge, obbligandomi ad un secondo colpo; i cambi di
direzione al termine di ogni zig-zag mi mettono a dura prova, a tratti
Paolo tira troppo, a tratti sono io a rallentare esageratamente. Gli
amici prendono un tratto laterale che avrei fortemente preferito
evitare, in luogo della traccia più cedevole che stavamo seguendo; io e
Paolo, paradossalmente, affondiamo a tratti in sottili vene di neve
bianca e farinosissima, incredibile e fuori luogo su questo pendio
corazzato, durissimo. Forse c'entrano anche le dimensioni del mio
scarpone, nel non entrare che per un decimo, in queste ridicole tacche
modello mignon? Un
lato della mia mente, calmissimo, ripete come un mantra che i ramponi
terranno, pur con una o due lame nella neve: è il loro compito, sono
stati progettati per questo, apice di una tecnologia bisecolare. E li ho
legati bene. So che farò fatica a slegarli, come ogni volta, al
rifugio. Tuttavia è dura lo stesso, fino alle roccette soprastanti al
bivacco. Mirtilli
rossi e thé caldo, 09.00. Foto e sorrisi, Manuela chiede più volte
cosa sia quella struttura che, purtroppo, segna il Piccolo Cervino. Ci
è andata bene: non tanto per la mia discesa, che tutto sommato mi ha
innervosito ma è corsa via senza danni, bensì per il cedimento del
rampone sinistro di Paolo che, se fosse accorso dieci minuti prima, ci
avrebbe probabilmente condannati ad un bel volo fuori programma. Ora,
invece, sorseggiamo thé e ci spalmiamo crema solare; chiedo a Manù di
fissarmi e mi specchio a mio agio nei suoi occhiali da ghiacciaio,
massaggiando il volto fino a far sparire ogni traccia di bianco,
eliminando il design alla Braveheart. La
discesa, nel sole fortissimo, ci consente di vedere molto prima i
crepacci. Scegliamo una traccia un po' diversa, Castore e Polluce ci
guardano. Il primo passa, il secondo corre mentre il primo ed il terzo
fanno sicura, poi il secondo assicura il salto dell'ultimo; plastici e
morbidi, aperti oppure affossati e chiusi pochi metri a lato della
traccia, i grandi squarci scuri restano indietro. Scendiamo,
scendiamo sulla grande conca del Verra, piegando a lato delle nere rocce
di Lambronecca; ho inalberato il mio improbabile berretto floscio da
Indiana Mark, la giacca è nello zaino, ho le braccia abbronzate e
lucide di crema che contrastano sul nero di pantaloni e maglia. Fa caldo
qui, mentre l'acqua del camelbag è ancora fredda; un'ape resa ubriaca
dalla quota e dal riverbero imbarda e va a morire in un buco, quasi tra
le lame dei miei piedi, sotto alla curva azzurra della corda di Paolo.
Una cucchiaiata di nevischio sporco frana dal bordo frastagliato dalle
lame, ed è finita. Tra
tutti gli esseri viventi che oggi hanno rincorso quassù l'ignoto ed i
loro sogni, le loro chimere, solo io sono stato testimone dei suoi
ultimi istanti di volo e di vita. L'arrivo al rifugio Guide d'Ayas è avvenuto alle ore 10.50, la partenza alle 11.20. La discesa a Saint Jacques è avvenuta alle ore 15.00.
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