Una stagione alpinistica densa, e iniziata presto, quella del 2015: dalla salita di capodanno al Breithorn Occidentale, al ritorno al Centrale e allo stesso Occidentale del 2 maggio, al Gran Paradiso del 27-28 giugno, al desiderio di provare qualcosa “di più”, nell’arco di due giorni. In altre parole, la bellissima traversata integrale del Monte Castore, già sperimentata con successo e apprezzamento dall’autore di questo sito nel 2010 e nel 2013, nonché nel 2016.
Nota: questa sezione dispone, a titolo indicativo, di un tracciato GPS.
Una salita intensa, praticamente perfetta sin dalla lunga passeggiata d’avvicinamento che dai 1689 metri di Saint Jacques, nell’alta Val d’Ayas, si è pazientemente snodata sotto un sole cocente (zero termico a 4800 metri, per più giorni) fino al Pian di Verra, al Lago Blu e, attraverso un ambiente naturale di stupefacente bellezza, fino al soprastante Rifugio Ottorino Mezzalama. Lasciando l’abitato alle 08.29, abbiamo difatti raggiunto il lago alle 09.45, risalendo il sentiero numero 7 fino a guadagnare il primo rifugio alle 11.40. Dopo una pausa e due chiacchiere con gli amici gestori, la salita - piacevole e tuttavia resa naturalmente disagevole dal grande carico sulle spalle - è ripresa.
Il Grande Ghiacciaio di Verra, purtroppo, non si presentava in buone condizioni. Anzi: pur essendo solo l’inizio di luglio, la vasta superficie glaciale vista dalla sua porta, alle cosiddette “rocce rosse” soprastanti il Mezzalama, appariva rovinata come a fine stagione. Un’enorme chiazza di verglas, grigio e vecchio, la deturpava, mentre dalla seraccata precipitavano detriti di rocce miste a frammenti di ghiaccio; la grande rampa che porta al Rifugio Guide d’Ayas alle Rocce di Lambronecca, tuttavia, era ancora innevata e ha agevolato quindi la risalita così come il successivo tratto attrezzato, sempre perfetto e provvisto anche di una scala metallica nell’ultimo tratto. Vi siamo arrivati alle 13.20.
Giunti al rifugio, nostra “base” per la serata, abbiamo scoperto con piacere di esser stati sistemati nell’invernale: una stanza comoda, con cinque letti (tanti quanti noi) e soprattutto fornita di una comodissima scala antincendio sul retro del rifugio, ideale per salire e scendere senza disturbare gli alpinisti nel camerone dell’ultimo piano. Il pomeriggio è lentamente declinato in una serata radiosa, eterna, tra gli splendidi panorami glaciali offerti dalla grande terrazza del Guide, un’ottima cena con birra della casa, i saluti agli amici lontani grazie all’efficiente wifi del rifugio, le ombre e la luce che tagliavano i due Tournalin, la Testa Grigia. Per tutta la serata, vicinissimo e quasi addomesticato, lo stambecco Ugo ci ha fatto compagnia nei suoi misteriori peregrinaggi tra i pannelli solari, i servizi e le roccette del rifugio.
Domenica 5 luglio, sveglia alle 3.30, mentre in realtà ero in movimento già da prima dopo una notte - finalmente - di sonno, non rovinata dal caldo torrido della pianura milanese o di Biella. Dopo l’usuale colazione, al nostro tavolo nel grande salone, ci siamo legati sul retro del rifugio risalendo con cautela i primi tratti della rampa glaciale, rovinata e colma di grandi crepacci scuri, aperti. Il lavoro d’osservazione della sera precedente, oltre all’ottima traccia, si sono rivelati utili e abbiamo evitato qualsiasi incidente, risalendo di buon passo l’alto Grande Ghiacciaio di Verra sotto le stelle del mattino: partiti alle 04.34, abbiamo raggiunto esattamente un’ora più tardi, alle 05.34, l’ampio varco del Colle o Passo di Verra, o Zwillingsjoch. Davanti a noi, solo tre puntini luminosi, partiti molto presto dal Guide d’Ayas, e un singolo scialpinista: io che apro le nostre due cordate, salendo per primo, l’ho incontrato a circa 3700 metri all’inizio dei grandi pendii sottostanti l’immensa Parete Ovest del Castore. Curiosamente, si sprofonda fino alla caviglia ad ogni passo, poiché con lo zero termico così alto, non c’è alcun rigelo notturno; e la situazione perdurerà per l’intera settimana seguente, purtroppo.
Il ragazzo si è rivelato francese, solitario viandante delle alte cime che, il giorno prima, aveva salito il Polluce e poco fa era disceso dalla vetta dell’altro Dioscuro. Mi descrive le condizioni della parete, ancora ottime malgrado il caldo, pur celando cinque crepacci aperti prima della grande crepaccia terminale. La crestina soprastante è in gran forma, mi dice ridendo, solo un po’ affilata, e richiede de ne pas avoir peur. Salutato il francese, che resta seduto sul suo zaino accanto agli sci corti a godersi la mattinata, cominciamo la salita. La traccia compie ampie curve regolari, serpeggiando in alto fino a far dolere il collo, se la si vuole seguire con lo sguardo; superiamo anche i primi crepacci, poco larghi e semiaperti in realtà, ma da affrontare con grande attenzione e corda tesa nel caso qualcuno - ad esempio il primo di cordata, cioè io - vi cada dentro. Una corda lasca aumenterebbe il colpo di frusta sul secondo della cordata, con effetti potenzialmente devastanti.
Mi chiedono più volte di rallentare il passo, e ciò nonostante manteniamo un buon ritmo: ogni volta che mi giro verso ovest, la fila di nere formichine che ieri ha cenato con noi al Guide d’Ayas è sempre indietro, i primi all’altezza del Passo di Verra. Quando ci appressiamo alla terminale, vedo ora perfettamente la situazione: a differenza delle mie due salite precedenti, vi è una sola traccia in uscita dalla Parete Ovest, e non corre verso destra, alla volta delle comode roccette sottostanti la vetta, sul lato sud della cima, dove si trova il busto di Don Bosco. Forse retaggio del recente Trofeo Mezzalama, sale erta sul lato sinistro, in territorio elvetico, superando la crepaccia quasi verticalmente e puntando verso l’Anticima Nord (a volte chiamata anche Anticima Nord-Ovest) del Castore, a quota 4205, posizione N45 55.323 E7 47.595.
Sono preoccupato per l’amica in seconda posizione nella nostra cordata, che non ha mai affrontato simili pendenze e che, giustamente, lamenta lo sforzo continuamente impostole dall’altezza dei rozzi “gradini” scavati nella neve fusa. Lei, per fortuna, tiene bravamente duro e mi segue sotto la colossale cicatrice orizzontale della crepaccia terminale, che supero il più rapidamente possibile alla sua sinistra, dove si restringe un po’: pochi passi, sufficienti a farmi reclamare ossigeno dopo uno scatto di velocità a questa quota, con questa pendenza. Sistemo la corda, in modo che non impacci e non finisca tra le lame dei ramponi: sopra di me pende una corda fissa, bianca e con qualche nodo a distanza regolare, residuo a sua volta del Trofeo. Prima di raggiungerla, però, c’è qualche problema da superare: non mi arriva la corda, il mio Tirare (nel contesto: qui bisogna tirare, ovvero, allungare il passo) viene frainteso come un invito a tirare la corda che sale fino al mio imbrago. In un punto simile, con un crepaccio di dimensioni ipertrofiche sotto i piedi e su una parete così inclinata, la situazione è surreale: non posso neanche girarmi completamente per vedere cosa succede sotto, accontentandomi di sbirciare, e parlare, attraverso i miei stessi talloni. Per fortuna la pressione sulla corda si allenta e, immergendo sia la lama che il fondo della picca nell’erto pendio candido, guadagno di volata due, tre, quattro metri: la corda fissa, a questo punto inutile. Grande fatica, dovendo vincere la resistenza sotto la mia corda, è come salire una scala a pioli con un peso legato sotto di sé: ma qui tiene tutto, l’uscita è in condizioni eccellenti, potrei salirla in solitaria e in perfetta sicurezza.
Una roccia, a sinistra, un solco nella neve, davanti a me: vi pianto un rampone, il destro, e un oceano di luce - luce e radiazione solare, una festa di particelle densissime e radiose - mi investe in pieno. Ultimo passo, e mi porto fuori dall’ombra della Ovest, nel sole: recupero la corda a bracciate, come se pescassi acqua da uno di quei vecchi pozzi che si vedono solo nei film western, facendo schizzare neve e gocce sopra le mie spalle. Anche l’amica sale, superandomi, poi Massimo, poi la nostra seconda cordata, altri alpinisti che ci avevano raggiunti durante la pausa tecnica della grande terminale: è la mia ottava volta sul Castore, ma qui non avevo mai messo piede. 4205 metri, un terrazzino pianeggiante di neve dura e cosparsa d’impronte, che sembra puntare Zermatt, il Gornergrat e i lontani Mischabel: meravigliosamente aerea e tranquilla, l’Anticima Nord del Castore premette qualcosa di così affilato, ripido, da stordire dolcemente con tanto contrasto. Sono ammutolito, mi ricordo a malapena della Canon al collo.
Il qualcosa è l’erta, affilata crestina bianca che, come una rampa di decollo, s’impenna e risale fino a congiungersi con la vetta. La guardo e, in quell’istante, un grande corvo nero la sorvola ad ali tese, immote: se sia Hugin, o Munin, non saprei dire. Ma pochi istanti più tardi, dopo i primi scatti, metto piede sulla crestina e comincio a risalirla, i Lyskamm alla mia esatta sinistra, il vuoto buio della Parete Ovest sotto al piede destro. E’ larga come due piedi affiancati l’uno all’altro, non di più, ma con l’aumento della pendenza sviluppa una sorta di rilievo nevoso sul lato destro, nel quale posso affondare la picca all’occorrenza: l’amica mi segue a sua volta, quando la corda la chiama, e così Massimo. Sento più volte l’invito a non correre!, ma non ho alcuna intenzione di correre, quassù: è qualcosa di magico, una purezza di linee, un’economia di spazio incastonata in un silenzio perfetto, che vorrei durasse per sempre. Amo improvvisamente questi passi, questo preciso momento, e da qualche parte un genius loci benevolo mi sorride: amo questa vetta, è l’ottava volta che ne guadagno la vetta, e tuttavia mi sento sempre uno scolaretto, un tredicenne alle prime armi, un pellegrino in un immenso santuario. Uno studentello di matematica innanzi al teorema di Fermat. Rivelazione, stupore infinito, fusione totale con l’ambiente, nell’aria sottile di questa mattina.
Sono le 07.22 di domenica 5 luglio 2015, e in vetta al Castore sembra purtroppo sbarcata una comitiva da qualche pullman. Non si spostano neanche di mezzo metro, e devo far su la corda tenendola in mano alla meno peggio, per favorire l’arrivo della mia amica che mi sta bravamente seguendo dal rifugio, da tutta la Parete Ovest: gente che urla e chiede Mi fai una foto?, spintoni, infilo la picca nella neve e vi faccio sicura solo per trovarla sepolta dalle gambe altrui. Sale anche la nostra seconda cordata, e comprensibilmente, gli amici mi chiedono di levare le tende quanto prima. Acconsento, con il rimorso profondo di chi avrebbe voluto trascorrere un po’ di tempo, quassù, prima di scendere: sembra tuttavia un centro commerciale, c’è il mondo, quasi che il Quintino Sella si fosse svuotato di mezzo migliaio di alpinisti colorati e - gli italiani, perlomeno - urlanti. Così, scendiamo.
La normale è in ottime condizioni, malgrado il caldo: il Castore regge ancora. Pesco qualche sasso, da regalare a un’amica, giù a Milano: ne avevo regalato uno alla mia nonna, anni fa, e lei lo aveva custodito tra le sue povere gioie a mia insaputa, quasi fosse stato un prezioso monile, un piccolo lingotto. Le sorrido, ovunque sia ora, guardando Champoluc là sotto - là dov’è cominciato tutto, là dove la sento particolarmente vicina. Persone come lei, e come mia madre, si sono rivelate drasticamente rare nella nostra famiglia.
Frattanto, mentre sono perso nei ricordi e nel lavoro di precisione passo-picca-passo-picca, il senso di prossimità mi informa che qui sul pianeta Terra avviene l’incredibile. Mi riscuoto e riattivo l'audio, ascoltando quel che succede intorno: c'è più ordine e silenzio a Wimbledon durante un match. Come sul Gran Paradiso una settimana prima, il caos sublima a livelli epocali. Due cordate si stanno azzuffando, a male parole - e che parole! - incuranti del luogo, della cattedrale in cui hanno la fortuna di camminare: lui urla a lei che non capisce… nulla di alpinismo, lei ribatte veemente che lui sale solo cascate di…, condividendo livore e stupidità con tutti gli altri alpinisti nei paraggi. Quasi non ricordo la discesa dal Felik, tra quelle urla, ma la fotografo e dunque l’ho percorsa: sono le 09.22 quando, infine, mi siedo sulle roccette antistanti il Quintino Sella. Roba da matti, il prezzo dell’andar per cime nel fine settimana, esponendosi ad uno spaccato di umanità che, forzatamente, comprende anche tali buzzurri.
Il resto della lunghissima discesa prosegue, come dire, uneventful. Ripartiamo alle 10.05 dal Sella, raggiungendo alle 12.05 la Bettaforca per una birra, forse poco indicata nel caldo rovente - scottano perfino le panche di legno - ma sognata da tutti e cinque; mezzora dopo, alle 12.37, siamo di nuovo in marcia. Finisco l’ultima acqua, come in un incubo stile legione straniera, marcia o crepa: alle 13.45 la fontanella di Resy è la cosa più bella che abbia mai visto. Le pietre ribollono, vi saranno trenta gradi e oltre, ma intorno a me paciosi vacanzieri attaccano grandi portate di polenta e pollo alla cacciatora, parrebbe: i bambini mi fissano sbalorditi mentre, la testa sotto l’acqua, ritorno pian piano alla civiltà. Alle 14.20, a Saint Jacques, sto molestando l’ennesima fontana - la terza della discesa, poiché la bella Fontanella dello Scoiattolo non esiste più - quando percepisco una, due, tre gocce in caduta libera: due minuti dopo diluvia. Tempismo perfetto. Ridiamo tutti, al termine di 24 chilometri, due giorni, ghiacciai, sole, roccia, fatica e splendore.
Nel frattempo, tra le gocce che rimbalzano tra il finestrino e il mio braccio destro, sento che quella crestina sospesa nel nulla tra l’Anticima e la vetta del Castore mi è rimasta dentro.
Dedicato agli amici Rossana, Massimo, Giorgio, Vichi. Con affetto.