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Invernale al Breithorn, 2015

Salita invernale al Breithorn Occidentale, primo gennaio 2015

 

Nota: Questa pagina dispone di un tracciato GPS scaricabile nell'apposita sezione.

 

Vacanze natalizie fin troppo lunghe, da riempire con quanta più montagna possibile: dalle Alpi Biellesi alle Orobie, dai colli bergamaschi innevati alla Valle d’Aosta, a qualche nuova meta compatibile con questo strano inverno privo di neve. Ecco quindi una salita invernale scelta apposta per festeggiare degnamente il nuovo anno e, soprattutto, la fine di un 2014 abbastanza spiacevole: due giorni trascorsi in alta Valtournanche presso il Rifugio Guide del Cervino, insieme alla mia fidata compagna di cordata e amica, Audrey, coronati dalla salita ai 4165 metri del Breithorn Occidentale.

Ho espresso più volte il mio pensiero su Cervinia e sul relativo carosello turistico, su quanto tutto ciò possa c’entrare con la mia personalissima percezione di “montagna” e “ambiente alpino”. Se tutto questo è vero e sensibile in estate, come rilevato durante l’ultima salita ai Breithorn nell’agosto 2014, l’impatto invernale è addirittura fortissimo: malgrado la crisi e la scarsità di neve che ha messo in ginocchio tanti comprensori sciistici all’Immacolata, le funivie di Cervinia-Plateau Rosa si sono presentate decisamente gremite, il primo gennaio 2015. Milioni di sciatori e snowboarder di tantissimi Paesi, dagli europei agli Emirati Arabi Uniti passando per Canada, Stati Uniti e Giappone; e due soli tizi appiedati con grossi zaini, guardati come animali rari dal resto della gente. Impossibile, per un amante di vecchia data della Val d’Ayas come me, non ammirare la zona delle Cime Bianche sperando che un simile scempio non tocchi mai al versante ancora intonso, quello ayassino…

Dopo un’attesa estemporanea sul terrazzo di Plan Maison, al gelo, siamo sbarcati alle 9.47 al Plateau Rosa: giusto in tempo per presentarci al rifugio, indossare l’imbrago al riparo dal vento fortissimo, e partire.

Il freddo non era eccessivo, tuttavia Audrey ha suggerito una sosta contemplativa al Piccolo Cervino, altra amena località che, nel mio personale modo di vedere le cose, rientra a pieno merito alla voce “montagna addomesticata”. E pesantemente, anche: mentre l’aspettavo svolgendo la corda e preparando i nodi a palla, schiere di sciatori coloratissimi e di semplici turisti si sono avvicinati per fotografarmi! Un paio di tedeschi hanno chiesto addirittura se io fossi un Parkführer e, essendo stato tanto sciocco da risponder loro Nein, wir moechten das Breithorn besteigen, ho dovuto poi indicare cosa fosse il Breithorn. Schiere di turisti intenti a fotografare tutto il possibile, senza aver cura di spostarsi appena oltre i cavi e i pali degli impianti, nella furia di pubblicare ogni cosa sui rispettivi social: ognuno tirato a lucido, ognuno rivestito di abiti e calzature tecniche per migliaia di Euro, nuovissime e destinate a restare tali in eterno. L’apoteosi del turismo di massa in montagna, tra caos e musica: folle plaudenti in grado di far sussultare di gioia ogni albergatore e palazzinaro delle Alpi Occidentali.

Le condizioni erano pressoché estive. Ripartiti alle 11.30 dal caos del Klein Matterhorn, abbiamo finalmente superato l’ultima frontiera - lo skilift per la Gobba di Rollin - inoltrandoci sul Breithornplateau, del tutto deserto. Il contrasto con la bolgia precedente non avrebbe potuto esser più lampante: pochi puntini sparsi nell’immensità del ghiacciaio, le grandi vette a far da corollario, prive di tracce e tuttavia aguzze, non appesantite da un manto nevoso prettamente invernale. Nessun gregge di pargoli urlanti, nessuno stand della Audi, niente bandiere della Red Bull, un’assoluta carenza di adolescenti armati di tavole e pantaloni larghi, una disarmante penuria di motoslitte: il vuoto assoluto.

Quasi a volerci mondare dai germi di tal foia consumista, la superficie del plateau, a tratti durissima e ventata, a tratti cedevole, ci ha costretti ad un avvicinamento guardingo e relativamente lento. Una volta rimontata l’ampia rampa che conduce al pendio dell’Occidentale, tuttavia, ho individuato una traccia ampia e praticamente soprastante la neve, invece di un solco: qualcosa di sovrimposto, non scavato. Follia del vento e del clima mite di questi giorni: perfino le vecchie tracce delle ciaspole, quel giorno, parevano tanti piccoli tepui, altipiani sollevati dal terreno gelato, non impronte scavate.

Incontriamo una coppia di alpinisti italiani, moglie e marito sulla sessantina, che scendono con passo veloce: confermano che le condizioni ottime, o perlomeno l’assenza di ghiaccio vivo finora incontrata, perdurano fino in vetta. Incredibilmente, insistono più volte: “La piccozza non vi serve”,ripetono, “la piccozza non serve neanche”. Sembrano infastiditi dal vederci circolare armati di picche, tentano di ricondurci sulla retta via. Al terzo giro di questo ritornello rispondo urbanamente di non sentirmi a mio agio su qualsiasi ghiacciaio senza la mia cara picca, provocando il malcelato sdegno dei due viandanti: e poi dicono tanto dell’incoscienza giovanile, dove andremo a finire, le mezze stagioni, non ci sono più i ghiacciai di una volta.

Raggiungiamo infine la vetta, Audrey tenendo duro nonostante la fatica, io con agio: e ancora una volta, guardandola, sono consapevole del suo sforzo per arrivare in vetta, sforzo minimo per me. Tutta la mia ammirazione va a lei, perché è facile compiere qualcosa per cui si è nati, per cui si è stati cresciuti, quando si sta bene e tutto funziona al 110%: il difficile è tener duro ad ogni passo, strappare al pendio e alla fatica un metro e poi un altro metro, poi un metro ancora, quando non si sta bene. La guardo, la vedo farmi cenno bravamente che è tutto okay, sento la trazione che esercita sempre per mantener ben tesa la nostra corda, e le voglio bene. Io, lei, la sua fatica, queste montagne, il morso dei miei ramponi nel tratto più ripido di questo immenso pendio bianco, è pura poesia; e con qualche oh, issa, oh, issa!, per farla ridere, le cedo il passo ed è in vetta. La lascio andare per tutta la lunghezza della corda, fotografandola, e le voglio ancora più bene di pochi metri prima. Difficile capire quanto le sia costato arrivare fin qui, per chi non era lì con noi, e con quanta forza si sia aggrappata alla salita, quanto di sé abbia dato alla nostra cordata, alla nostra piccola spedizione. Un piccolo reattore nucleare che brucia un combustibile specialissimo, forza di volontà concentrata a livelli purtroppo rari, oggigiorno: questa è Audrey, oggi. Qui. Quassù.

Sulla cresta sommitale, qualcuno ha scavato due profonde trune: la ricerca di un riparo per fotografare l’alba, una ricostruzione della Guerra Bianca, chissà. Il Breithorn Centrale non è tracciato, la sua pinna candida è ancora più affilata, in un certo modo più provata, di quanto non fosse nel mese di agosto 2014. Intorno a noi, il mondo; sotto di noi, elicotteri e aerei, i primi a far la spola da Zermatt e Cervinia per gli amanti del freeride, i secondi imbottiti di teleobiettivi e grandangoli per immortalare comodamente paesaggi altrimenti inviolabili, irraggiungibili. Da piccolo odiavo questi trucchi, queste scorciatoie; mi è rimasto un estremo senso di fastidio per gli elicotteri dell’heliski, dopo l’esperienza della scorsa primavera sul Monte Rosa. Per fortuna, questi si tengono a debita distanza e l’angolo di deflessione dei loro rotori non turba il nostro karma.

Ce la prendiamo comoda, in discesa, ammirando le ultime luci del tramonto sul Cervino, sul “dente di squalo” del Weisshorn, sullo stiletto del Zinalrothorn, su mille altre cime. Ci aspettano un’ottima cena al Guide del Cervino, serviti dallo staff molto cortese e poliglotta come in ben pochi altri angoli d’Italia, e una lunga notte ventosa… Al sicuro nella stanza numero 6, mentre là fuori il baccanale infuria e il Cervino viene illuminato a giorno.                      

                               

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