Inaugurata il 19 dicembre 2009 presso le sale del prestigioso Museo di Storia Naturale, la mostra L'Oro della Speranza. Un nuovo tesoro al Museo di Storia naturale ha portato un angolo di Val d'Ayas a Milano: un affascinante connubio tra il dinamismo e la frenesia dell'inquieta metropoli lombarda e le arie sobrie, d'antan, evocate dal non lontano passato minerario di Ayas. La mostra è stata organizzata dal Polo dei Musei Scientifici Milanesi, coordinata da Paolo Arduini, Mauro Mariani e Federico Pezzotta; quest'ultimo ha anche fornito i testi e la documentazione, mentre il progetto grafico è stato curato da Claudio Pagliarin e Graziella Perini. I fratelli Lino e Mario Pallaoro hanno realizzato i filmati, mentre il suggestivo allestimeno è frutto del lavoro di Felice Cerutti, Alessandro Guastoni, Renato Pollini e Cristina Tomita.
L'esposizione, limitata ad una sala al pianterreno del Museo ma ben curata anche nei dettagli puramente estetici, ha riscosso un notevole interesse da parte della stampa online e cartacea: non si contano i siti, i newsgroups, gli articoli dedicati all'evento, in massima parte poco dopo l'inaugurazione avvenuta lo scorso dicembre, con discorsi del dottor Mariani e del dottor Pezzotta. Vista l'assenza di copertura da parte dei media aostani, o dei cosiddetti siti "vicini" alla Val d'Ayas, Varasc.it, conscio che la descrizione di una terra e della sua storia richiede sia la documentazione sul campo, sia il lavoro d'archivio fuori porta, ha visitato per la seconda volta la mostra giovedì 08 aprile 2010, in modo da proporne il fedele reportage.
Nel mese di giugno 2014, la stampa ha dato notizia di una singolare controversia incentrata proprio su tale mostra.
L'Oro della Speranza. All'interno della sala
Notevole l'allestimento: il visitatore proveniente dall'ingresso del Museo, la cui colossale mole è seminascosta dai piacevoli giardini Indro Montanelli, attraversa inizialmente alcune sale e lunghi corridoi in cui i minerali cedono il posto a magnifici reperti fossili e dinosauri. La sala è semibuia, le uniche luci provengono dal soffitto delle vetrine: disturbano le fotografie, del resto già ostacolate dagli spessi cristalli protettivi delle grandi teche, creando tuttavia una suggestiva scenografia che porta alla mente gli spazi bui ed angusti di un'antica miniera abbandonata. Un video, trasmesso da un televisore a schermo piatto, racconta la ricerca aurifera in Val d'Ayas ed in Valle d'Aosta. L'ingresso alla sala è sorvegliato da una sorta di antico panzer vivente, un Glyptodon risalente al Quaternario sudamericano: un'epoca spiacevole in cui vivere, se perfino un pacifico erbivoro era costretto a dotarsi di una simile, colossale protezione ossea, più indicata alle polverose strade di Falluja e Bala Morghab che alla pampa argentina.
Si accede alla sala passando davanti ad una grande fotografia: su sfondo scuro, tre minatori inginocchiati studiano campioni di roccia alla luce di lampade frontali. Le teche sono disposte intorno a questo punto: si tratta di otto vetrine, disposte nella Sala XIII. Dal buio emergono alcune candide matrici di quarzo, adorne di prezioso oro nativo: i cinque campioni provengono dal filone della Speranza, sepolto nella rupe di Chamousira, sopra Brusson. In particolare, due dei bellissimi minerali sono stati acquistati grazie ai fondi Ronchetti, gli altri tre donati dai gemelli Lino e Mario Pallaoro, nonché da Maurizio Prati e da Federico Morelli; un altro campione è dono de Cariplo. Un colossale esemplare di quarzo proveniente da Brusson spicca, bianco ed irto di cristalli traslucidi come un complesso anemone marino, sotto la gigantrografia dedicata al suo scopritore, Florindo Bitossi. Di notevole fascino si sono rivelati anche gli strumenti d'epoca della Collezione Federico Morelli: antichi utensili provenienti dalle miniere di Brusson, tra cui una vecchia lampada ad acetilene, scalpelli, un martello, ormai inglobati dai sedimenti. Oltre all'oro ed agli strumenti, tuttavia, la mostra offre anche alcuni pregevoli e rarissimi testi, sogno di qualsiasi bibliofilo: Osservazioni mineralogiche sui giacimenti auriferi di Brusson di Luigi Colomba, edito a Torino nel 1907, I giacimenti auriferi delle Alpi italiane di Augusto Stella, Atlas der Krystallformen di Victor Goldshmidt, L'immensa miniera d'oro dei Salassi di Teresio Micheletti, Oro, miniere, storia di Giuseppe Pipino, Gold Districts of California e The Gold Mines of the World.
La prima vetrina, come premesso, è dedicata al recentemente scomparso Florindo Bitossi e riporta il testo: Florindo Bitossi per noi è stato, oltre che un amico, un maestro dell’arte estrattiva e una guida eccellente; rivelandoci alcuni dei mille segreti scoperti in decenni di appassionata attività ci ha insegnato a leggere le rocce e i filoni, portandoci a scoprire un tesoro che mai avremmo immaginato di trovare. I gemelli Mario e Lino Pallaoro, Federico Morelli e Maurizio Prati, gli scopritori del più grande ritrovamento di oro documentato nelle Alpi, hanno fortemente voluto che i campioni più rappresentativi del ritrovamento venissero conservati presso un museo italiano. Per questo, dopo la cessione al nostro Museo dei primi due esemplari, vi è stata la donazione degli altri tre spettacolari campioni.
La seconda vetrina, intitolata L'oro e le nuove acquisizioni, riporta il testo: La più importante fase estrattiva delle miniere della rupe di Chamusira, situata circa un chilometro ad est dell’abitato di Brusson, in Val d’Ayas (AO), risale al primo decennio del ‘900. Praticamente nulla di quanto trovato all’epoca nei celebri filoni auriferi Fénillaz e Speranza, i più ricchi mai rinvenuti nell’arco alpino, è stato conservato. Testimonianze orali tramandate dai minatori dell’epoca parlano di come l’oro qui si trovasse allo stato nativo, talvolta in masse straordinarie, del peso anche di alcuni chilogrammi. Grazie ai fondi provenienti dal Lascito Ronchetti e a una sponsorizzazione Cariplo, il nostro Museo ha potuto acquisire i più straordinari campioni rinvenuti durante l’assiduo lavoro di ricerca effettuato nel filone della Speranza, prima della fine degli anni 1980, da alcuni appassionati in collaborazione con Florindo Bitossi.
La quarta vetrina riporta invece Contrariamente a numerose altre miniere aurifere della Val d’Ayas, conosciute forse già dai Salassi e dai Romani, i ricchi filoni della rupe di Chamusira, rispettivamente Fénillaz e Speranza, venivano scoperti e coltivati rispettivamente dal 1900 e dal 1939. L’attività mineraria più intensa venne condotta nel periodo 1903-1909 dalla società “The Evançon Gold Mining Company Limited”, con sede a Londra, costituita sotto l’auspicio di due finanzieri inglesi (I. Lewis ed E.H. Dunning) già proprietari di miniere d’oro in Sudafrica. Un ulteriore periodo estrattivo, dal 1937 al 1949, con varie interruzione per problemi dovuti al conflitto bellico mondiale, venne effettuato dal Commendator Giuseppe Rivetti, di Torino. In questa fase vennero effettuati lavori soprattutto nel filone della Speranza. L’ultima fase estrattiva iniziò nel 1973 da parte del concessionario Franco Filippa, in accordo con il signor Florindo Bistossi, e durò fino alla fine degli anni 1980.
La quinta teca, dedicata invece allo studio dei giacimenti, cita: Nell’area interessata dai filoni auriferi della rocca di Chamusira affiorano le rocce metamorfiche alpine dette della “cupola di Arcesa-Brusson”, costituite prevalentemente da gneiss anfibolici. Tale mineralizzazione aurifera, contenuta in filoni di quarzo compatto che attraversano le rocce metamorfiche, a livello alpino rappresenta un’eccezione; infatti, tra i giacimenti auriferi che contornano il Monte Rosa, il giacimento della rocca di Chamusira è praticamente l’unico che presenta l’oro allo stato nativo (ossia non frammisto a solfuri di altri metalli). L’eccezionale concentrazione d’oro rappresentata dai campioni oggetto di questa mostra è stata scoperta ispezionando alcune porzioni del filone “Speranza” con l’ausilio di un metal detector.
La sesta illustra il delicato procedimento di pulizia e "liberazione" dell'oro dalla massa di quarzo, effettuato dopo una ricognizione dai laboratori del Museo milanese: L’oro dei cinque campioni principale oggetto di questa mostra si presentava incluso nel quarzo compatto. E’ stato quindi necessario studiare un metodo per rimuovere selettivamente il quarzo, per evidenziare le masse d’oro senza però staccarle dalla matrice naturale. A causa della pericolosità dei prodotti chimici utilizzati, tutti i trattamenti sono stati effettuati sotto apposite cappe aspiranti in dotazione ai nostri laboratori. Come prima cosa ogni campione è stato attentamente studiato con un micro metal detector che ha permesso di fare una mappatura della distribuzione interna del metallo. Di alcuni campioni, inoltre, sono state ottenute immagini con uno scanner ai raggi X in dotazione all’Aeroporto di Milano-Linate. Proteggendo le porzioni quarzose da non disciogliere con un rivestimento di ciclododecano (un apposito idrocarburo, fornito dalla ditta Bresciani S.r.l.) si è quindi proceduto ad acidatura con una soluzione concentrata di acido fluoridrico.
La penultima vetrina, dedicata all'oro di Brusson, si apre con una citazione del citato Luigi Colomba e prosegue: Nei filoni auriferi di Brusson, l’oro si presenta generalmente incluso nel quarzo compatto sotto forma di moscheo masse cosiddette dendritiche. Tuttavia dove le concentrazioni diventano più importanti accade che l’oro assuma un aspetto cristallino tipico, con cristalli minuti generalmente con combinazioni di facce lucenti di cubo e di ottaedro, talvolta riuniti in modo da formare strutture geometriche di maggiori dimensioni, definite in mineralogia aggregati scheletrici, ossia cristalli incompleti nei quali prevalgono vuoti al posto delle facce.
L'ultima vetrina getta una luce sul passato e sul futuro dell'oro, da metallo di pregio - conteso, barattato, rubato e bramato nel corso della storia - a potenziale fonte di nanoparticles per la lotta antitumorale. A causa del suo colore, della sua inalterabilità e della sua malleabilità che facilita la fabbricazione di magnifici oggetti, l’oro ha affascinato gli uomini fin dai tempi più antichi. Per la sua bellezza e la sua rarità l’oro ha sempre rappresentato il simbolo della ricchezza e del lusso.Ai giorni nostri l’oro rappresenta un bene fondamentale nell’economia mondiale e una garanzia finanziaria per chi lo possiede. Tuttavia forse pochi sanno che le proprietà dell’oro cambiano drammaticamente alla nanoscala. Nanoparticelle e nano spugne di oro hanno infatti importanti proprietà ottiche e catalitiche tanto da essere oggetto di studi avanzati biomedici e della scienza dei materiali. Ad esempio, si prevede che nanoparticelle di oro potranno essere impiegate nella distruzione foto termica dei tumori.
Per finire, si è voluto accostare tanto oro nativo ad un prodotto dell'eterna lavorazione di tale metallo: una curiosa statuetta di San Pietro con chiavi, in realtà un reliquario risalente al 1500-1510, realizzato in rame sbalzato e dorato per il corpo e la base, in argento sbalzato e dorato per la testa, in argento fuso per mani, piedi e chiavi. La statuetta è di fattura lombarda, tratta da un modello di Pietro Bussolo, ed appartiene alle Civiche Raccolte d'Arte Applicata. Si segnala infine che maggiori dati inerenti ai filoni di Fénillaz, Speranza e Gae Bianche si possono reperire nell'ottimo volume Miniere della Val d'Ayas, alle pagine 66/86.