La Val d’Ayas ha molte peculiarità: montagne stupende, montagne veramente adatte a tutti, luoghi così significativi da scolpire una vita ed un carattere, bellezze impossibili da descrivere a chi non le ha ancora condivise. Sono molti i particolari che la rendono unica e che la esaltano agli occhi dei suoi figli, adottivi e non: Ayas è qualcosa di speciale, e ha molte sfaccettature. Una particolarità di Ayas che forse tutti abbiamo ben presente, pur non essendone consci, è un prodotto del suo artigianato: un prodotto che affonda la sua storia nella più antica, tanto che tuttora si ignora chi e dove lo costruì per primo. In altre parole, il sabot, la robusta calzatura di legno il cui inconfondibile passo ha risuonato in tutte le mie lunghe estati a Champoluc.
I sabot in Val d'Ayas. Storia e tradizione
In Ayas, il mestiere del sabotier si è trasmesso da sempre di padre in figlio, attraversando i secoli e le generazioni. Non si trattava di una semplice forma folcloristica di artigianato locale: ben presto le foreste della valle si rivelarono insufficienti per gli ayassini, tanto che molti di loro si trasferirono altrove per creare nuovi atelier. Il commercio di questo prodotto divenne vitale per l’economia della zona, nei secoli passati. I sabot si diffusero ampiamente nella grande piana piemontese, la cui domanda alla fine del XIX secolo era talmente grande da far sì che in Ayas ogni altro mestiere (gantiers, scieurs de long) lasciasse il posto all’industria degli zoccoli di legno.
Questo affascinante ed ormai quasi perduto settore manifatturiero è stato approfondito, nel trascorrere dei decenni, da un'acuta ed ormai introvabile bibliografia. Nel tardo novembre 2008, Varasc.it ha acquisito il raro testo La fabbricazione degli Scroi o Sabots, del professor Chiej-Gamacchio, inerente alla realizzazione di queste calzature; il 17 gennaio 2009 è invece comparsa, sull'enciclopedia online Wikipedia, una voce inerente a questi zoccoli lignei, realizzata da Jacques Bottel grazie alla presente sezione de Varasc.it. Nel marzo 2011, infine, è stato acquisito il raro e bellissimo I sabotier d'Ayas. Mestiere tradizionale di una comunità valdostana. Nel febbraio 2015, la disamina del raro volume Brusson ha fornito ulteriori dati in merito ai sabot.
Tutti gli artigiani sabotieri diffusi in Valle d’Aosta e nei mercati del Piemonte provenivano da Ayas, che all’inizio del ‘900 aveva ben 250 sabotiers: un contributo notevole, se si tiene presente che questa piccola valle non ha mai ospitato una popolazione particolarmente numerosa, anzi. Questo dato è storicamente accurato, grazie alle cronache dell’abate Lale-Démoz che fu vicario di Ayas dal 1914 al 1919: egli infatti parlava di circa 250 artigiani impegnati contemporaneamente a lavorare nell’industria dei sabot, specificando però che solo uno su dieci (i migliori) potevano trovare effettivamente lavoro nella loro bella valle natia. Gli altri erano costretti ad emigrare in Piemonte. La produzione dei sabot non era però riducibile ad un mero fattore economico: si inseriva infatti in un affascinante contesto di tradizioni ed industria domestica che risaliva alla notte dei tempi, un contesto che era lo specchio sincero del modello sociale della cultura alpina e rurale dell’epoca. Il singolo artigiano non frequentava corsi o scuole, non svolgeva l’apprendistato nell’atelier più importante del paese, non viaggiava per imparare il mestiere che l’avrebbe nutrito per la vita: tutto (la conoscenza, i metodi di lavoro e perfino gli attrezzi) gli era fornito dalla famiglia e nella famiglia. Come molte nobili ed antiche tradizioni che sono state spazzate via dalla modernità e dal cosiddetto progresso, questa attività cominciò a conoscere la crisi quando il sistema agricolo piemontese sviluppò tecnologie più avanzate. Bisogna aggiungere che presto intervennero anche le migliori condizioni di vita degli ayassini, in questo rapido processo di abbandono dell’industria artigianale: ad ogni modo, presto il ciclo che si tramandava da secoli si interruppe e l’antica tradizione sabotiera svanì.
Un po’ di storia
Come premesso, il mistero (o meglio, l’oblio) avvolge la vera data di nascita del primo paio di sabot. Si tratta comunque di una storia che ha radici molto remote. I dati certi riguardano piuttosto le aree geografiche: queste calzature caratteristiche di Ayas venivano realizzate anche in Belgio ed Olanda, nella zona dello Jura, lungo i Pirenei e più generalmente nella Francia settentrionale. Naturalmente la struttura e la conformazione dei prodotti erano differenti, ma non certo la tecnica alle loro spalle: perfino la celebre Encyclopédie di Diderot illustra strumenti praticamente identici a quelli che ancora oggi possiamo vedere nelle mani dei pochi artigiani ayassini. La ragion d’essere del sabot è rimasta altrettanto invariata attraverso il tempo e lo spazio: proteggere il piede e tenerlo caldo, lasciando all’esterno acqua, fango e pantani. In Val d’Ayas, anticamente, tutti calzavano i sabot: non certo per futili mode, bensì per necessità e convenienza. Inoltre, pochissimi erano i fortunati possessori di souliers, che si utilizzavano solo in occasioni veramente importanti come lo djoéi, vale a dire il periodo in cui le ragazze facevano la lista nozze, e naturalmente nel giorno del matrimonio. Anche i bambini ed i ragazzini avevano i loro sabot, provvidenzialmente legati alle gambe per non smarrirli nei boschi e nei campi; lievemente diversi erano quelli delle donne, ben decorati e con un tacco più alto, decisamente più fini. Secondo la tradizione, dopo la festività di Ognissanti e mentre il gelo spazzava la valle gli uomini cominciavano la lunga e laboriosa fabbricazione dei sabot. Si usava lavorare in due, praticando cioè il Travài Dévésà, chi alla parte interna chi all’esterna. Gli artigiani potevano anche andare direttamente dai clienti per prendere le misure: queste venivano stabilite in modo approssimativo, affidandosi all’esperienza dell’artigiano, che distingueva tra grôsse, mèdzane e bachtardine.
In caso di bisogno, due artigiani potevano realizzare ben dodici paia di sabot al giorno; in certi casi, però, arrivavano addirittura a quattordici o quindici paia. In quanto al prezzo, nel 1894 si compravano dodici paia di misura grôsse con 8,5 / 9 Lire ed una dozzina di paia medie (mèdzane) con 6 / 6,5 Lire, rispettivamente 48000 e 34000 Lire dei tempi precedenti l’euro. Gli appositi strumenti erano realizzati in una tempra speciale dal forgeron Favre Blaise di Periasc, aiutato da un certo Lettry di Pilaz: questi due personaggi migliorarono la qualità degli strumenti. La maggiore fonte di materiale per i sabotiers erano, naturalmente, le foreste che ricoprivano Ayas: gli artigiani preferivano il pino cembro, e quando da una singola sezione di tronco (Bûche) si potevano ricavare due sabot o più, ecco che il loro lavoro diventava particolarmente ricercato. Naturalmente anche il prezzo lievitava, per cui non c’è da stupirsi se i sabotiers erano soliti ricorrere soprattutto alle basi dei tronchi, molto più larghe. All’occorrenza si utilizzava anche il famoso sapin, mentre il pino silvestre poteva provocare dolori al piede. Una volta realizzati, i sabot giungevano in massima parte sui mercati di Vercelli e Novara, zone in cui a partire dalla seconda metà del secolo scorso l’agricoltura era diventata moderna, con il metodo dello sfruttamento intensivo.
Non solo: altri mercati che ospitarono il commercio di questi prodotti valdostani furono Crescentino, Santhià, Trino Vercellese, Desana, Casale Monferrato e Palazzolo Vercellese. Inizialmente la produzione ayassina era sufficiente a fronteggiare la domanda di calzature. Presto però la domanda crebbe a dismisura ed ecco che notevoli flussi migratori portarono gli artigiani ayassini e le loro famiglie a stabilirsi nel Canavese e nel Monferrato, innescando importanti processi sociali che avvicinarono sensibilmente la realtà ayassina a quella piemontese, e viceversa. I sabotiers ayassini si installarono stagionalmente a Verrès, Villeneuve, Introd, Cogne, Champdepraz, Antey, Villata, Salasco, Albano Vercellese, Viverne, Ivrea, Asti, Azeglio, Tonengo e Morano Po.
Verso la fine dell’800, un certo Borbey di Aosta ebbe l’idea di modificare per i sabot una delle macchine che in Francia producevano le galoches; questo comportò una diminuzione della difficoltà del lavoro per gli artigiani ed una maggiore produzione. Dal 1950 in poi, infine, la domanda diminuì e sparì per l’arrivo di stivali e scarpe in caucciù. Più recentemente, le macchine hanno naturalmente continuato a svolgere una parte importante del lavoro, poiché i giovani hanno completamente perso interesse a questo tipo di industria e non ci sono più apprendisti. Tuttavia, le paia di sabot più ricercate sono ancora quelle prodotte a mano dall’esperienza artigianale! Nel 1995, Ayas contava ancora una ventina di sabotiers, che nel djerg locale si dicono tsacolé. Tuttavia la produzione moderna è volta unicamente a fini folcloristici, visto che il turismo è molto interessato a questi prodotti così unici; infatti molti artigiani tendono a realizzare soprattutto Tsoquin, i sabot souvenir che spesso vediamo appesi sui balconi come portafiori.
L'industria dei sabot a Brusson
Secondo il volume Brusson, edito nel 1991, la produzione dei sabot non era limitata ad Ayas, avendo luogo anche a Brusson ed Extrapieraz. L’abbé Joseph Lale-Démoz, nel 1921, ricordò che gli artigiani di Brusson ed Ayas si erano uniti appositamente nella Fédération professionnelle de sabotiers, costituita nel 1919 da più di cento membri. Il volume fornisce a sua volta, alle pagine 38/41, una dettagliata descrizione della fabbricazione dei sabot.
La fabbricazione del sabot
Su un cartchôt o cavalletto (cavalet nel patois di Brusson), si taglia il tronco secondo la lunghezza voluta per il sabot. Si ricavano così due grossi pezzi di legno che verranno confrontati per controllare se si assomiglino, per poi passare a sgrossarli approssimativamente con una piolet, vale a dire un’accetta. Successivamente il lavoro si sposta sul banc di tsôque, il banco di lavoro, dove si continua a dare forma alla calzatura: questo passaggio si chiama échapolà. Si passa quindi a lavorare la parte interna, che viene ritenuta la mansione più semplice ed è pertanto spesso affidata agli apprendisti, che spesso finiscono comunque con lo sfondare la parte anteriore dei loro primi sabot. Si usa un Travéla, un succhiello con punta a vite (taravéla nel patois di Brusson) cui viene impresso un movimento rotatorio, per scavare l’interno del sabot. Per rifinire l’interno si utilizza invece la cosiddetta lénguetta, uno scalpello a foglia (lénguetta solira e lénguetta dretta nel patois di Brusson). Avviene quindi la realizzazione del tallone e della punta, mediante il coltello da banco. Per rifinire meglio l’esterno del sabot si usa l’inconfondibile Coutél dè dove man (couté dè doe man nel patois di Brusson), un coltello a due mani, un attrezzo particolarissimo che richiede anche un’apposita protezione, la pétsa, un semplice pezzo di legno legato in vita con una correggia, indispensabile a sua volta, visto che in questa fase il sabot in via di rifinitura si trattiene con le ginocchia. L’ultima fase vede la modellazione degli orli dell’entrata, mediante un coutel dréit, un coltello a lama fissa (couté dret a Brusson).
Quindi, mediante la créyón di tsôque, un’apposita matita, si numerano i nuovi sabot; resta solo da adoperare il resséón di tsôque, un seghetto, per far passare del filo di ferro nell’orlo dell’entrata, per renderlo più robusto e durevole. In sintesi, ecco realizzato il vostro sabot. Un’opera artigianale che vi servirà fedelmente così come ha servito generazioni e generazioni di uomini, donne e bambini, oppure un semplice ricordo di un soggiorno in Val d’Ayas. Ad ogni modo, si tratta pur sempre di un prodotto che rappresenta un piccolo pezzo di storia, qualcosa di introvabile altrove. Qualcosa da ammirare, un oggetto che va ben oltre la sua concreta essenza di semplice calzatura di legno.
Per approfondimenti sull’argomento e per ammirare le migliori immagini dei sabotiers all’opera, nonché della storia stessa di questo prodotto, si consiglia caldamente la notevole opera Les sabotiers d’Ayas, métier traditionnel d’une communauté valdotaine, di Luigi Capra, Saverio Favre e Giuseppe Saglio, in Cahiers de culture alpine, Priuli e Verlucca editori, Ivrea (Torino) 1995. Si ricorda inoltre il saggio La fabbricazione degli Scroi o Sabots, edito nel 1916 dalla Reale Accademia dell'Agricoltura di Torino e recensito da Varasc.it; infine, è disponibile la versione in lingua italiana del lavoro di Capra, Favre e Saglio, I sabotier d'Ayas. Mestiere tradizionale di una comunità valdostana.