Amé Gorret, l'Orso della montagna
Nota importante: in
occasione del centenario della scomparsa dell'Abbé Gorret, a Champoluc
si è tenuto un interessante incontro, il 18 agosto 2007, nell'ambito
del quale è stata approfondita e rivista la tematica inerente alla vita
ed alle opere di questo singolare sacerdote, parroco per ben ventun anni
a Saint Jacques. La figura del sacerdote
rivive anche nell'opera di Giuseppe
Mazzotti e nel testo Amé
Gorret. L'Ours de la Montagne realizzato nel 1987 da Efisio Noussan
ed Aldo Audisio.
Come molti suoi conterranei del periodo compreso
tra l'Ottocento ed il Novecento, Amé Gorret nacque e crebbe con le
caratteristiche tipiche dei montanari di una volta: povertà, attitudine
al duro lavoro dell'accudire la terra e le bestie, orizzonti
forzatamente limitati (in senso non solo fisico e tangibile) da quelle
stesse montagne ai cui piedi vivevano e morivano.
Tuttavia, nel caso di Gorret, la vita ebbe una
svolta forse difficilmente preventivabile: la carriera ecclesiastica
che, se così spesso ne limitò i forti istinti e le forti passioni,
forgiò un carattere destinato a lasciare una netta impronta nella
storia della sua Valle. Il figlio di montanari divenne un uomo allo
stesso tempo colto ed intelligente, valoroso ed appassionato della
scrittura, un uomo che mai avrebbe dimenticato le sue amate montagne, la
sua lotta per coniugare la montagna ad un turismo più
"etico", la forza delle sue convinzioni. Un uomo la cui vita
è stata tanto movimentata e burrascosa da creare addirittura leggende
sul suo conto; uno scrittore arguto e brillante, spesso ironico, che
rappresenta emblematicamente la vicinanza, tra '800 e '900, tra
ecclesiastici valdostani ed esponenti del mondo alpinistico. E' il 26 ottobre 1836, a Valtournanche, quando
nasce Amé Gorret: più precisamente, nella piccola frazione di Montaz-Dessus. Il padre lavora come guida e si chiama Jean-Antoine Gorret, la
madre è Marie-Véronique Carrel. Amé, ultimo di sette fratelli, è gracile e
molto debole. Tuttavia sopravvive alla prima infanzia, frequentando la
scuola del borgo, dove conosce il severo curato Bore: di lui, più
tardi, scriverà "(…)la mia guida e la mia bussola", in
occasione della sua morte, nel 1858. Il suo vicario, tale Jacquin (a
Valtournanche dal 1845) si prende cura del ragazzino e gli insegna a
scrivere con un metodo curioso, resosi indispensabile per via del costo
della carta: una pietra calcarea molto liscia, e per inchiostro una
mistura di bacche del sottobosco raccolte da Amé. Il ragazzino è
promettente e, su consiglio dei religiosi, la famiglia lo invia in
collegio nella lontana Aosta, al Sant'Orso.
Qui Amé impara ad
apprezzare fortemente la filosofia e l'algebra, la geometria e la
fisica, mentre con il tempo scopre di odiare gli abbellimenti barocchi
che all'epoca contraddistinguevano lo stile scritto. Egli possiede uno stile diretto e sanguigno,
capace di rendere molto efficacemente le immagini; ama il latino e non
china il capo alla "schiavitù della lingua francese", lingua
correntemente utilizzata in quelle terre. Soprattutto, il giovane Gorret
(per quanto irruento e vivace come qualsiasi altro ragazzo) non
accetterà mai la visione razionalista e riduzionista del mondo. Ciò
caratterizzerà sempre il suo pensiero: Gorret diverrà infatti un uomo
amante del progresso, capace di coglierne i benefici, ed allo stesso
tempo sempre accanito difensore delle verità dogmatiche sostenute dalla
Chiesa, nella sua visione più ortodossa.
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Dopo cinque anni presso la Collegiata di
Sant'Orso, però, il giovane si trova a dover compiere una scelta: se ne
rende conto, scrive, quando il padre gli chiede cosa abbia intenzione di
fare, durante una vacanza. "A casa non c'è pane per
tutti". La scelta cade sul sacerdozio, dopo un'iniziale
interesse verso la professione del medico, ed Amé entra nel Gran
Seminario di Aosta, in cui vivrà anni felici. Ama profondamente i libri
e la cultura, le dotte discussioni con i superiori o i compagni di
seminario, nel più totale disinteresse verso i turbolenti avvenimenti
che, attraverso i giornali e le notizie portate dai viandanti, scuotono
perfino la remota cittadina. Qualcuno, là fuori, sta lottando per un
sogno politico e sociale talmente ambizioso da risultare spesso
incomprensibile a livello locale: unificare genti completamente diverse
tra loro sotto un unico vessillo, in un unico Stato, che non debba mai
più cadere sotto le mani avide di nemici stranieri. Un progetto che, in
Europa, è stato tentato solo dalla Prussia.
Trascorrono cinque anni di seminario, che Gorret
non avrebbe mai voluto lasciare. Tuttavia non può rimandare oltre ed a
venticinque anni, il 25 maggio 1861, è ordinato sacerdote dal vescovo
di Ivrea, Louis Moreno. Si reca come vicario allo Château, il capoluogo
della valle di Champorcher, che ricorderà come "La mia seconda
patria". Proprio durante questo primo viaggio, il giovane
vicario incontra per la prima volta il sovrano Vittorio Emanuele II, il
primo agosto 1861.
A Champorcher trascorre tre anni tranquilli,
nell'amicizia del curato, assieme al quale restaura il cimitero e la
sacrestia, inaugura nuovi altari, fonde nuove campane. Tuttavia il suo
destino è altrove: nella primavera del 1864 si reca a St. Pierre, dove
sarà vicario per otto mesi, e nel 1865 a Cogne. Qui si trova in
difficoltà: gli muore la madre, Marie-Véronique Carrel, mentre a
Cogne è preso in antipatia dalla popolazione che non vuole lasciar
partire l'ex vicario, cui è affezionata. Vengono sparse voci diffamanti
sul conto di Gorret, mentre un'ambasceria si reca a chiederne la revoca
dal ruolo di vicario. Tutto inutile. A Cogne, nonostante il pessimo
benvenuto, Gorret non avrà troppe difficoltà ad intendersi con il suo
parroco, Balthasar Chamonin, anch'egli un alpinista, anzi il primo salitore
della Grivola. Il sacerdote incoraggerà Gorret, unitamente ad
alcuni amici del CAI, a scrivere delle sue esperienze in montagna,
contribuendo così alla sua fama di alpinista. "E' con il
vicariato di Cogne che ebbero inizio le mie grandi escursioni sulle
montagne e il mio gusto nel descriverle", commenterà
successivamente il giovane sacerdote nelle sue memorie.
Gorret, ormai divenuto un uomo adulto ed
imponente, si preoccupa anche di conoscere meglio la terra ed il popolo
che gli sono stati destinati ad Aosta. Cogne, spiega, era ricca per via
della sua miniera di ferro di Liconi, poi acquistata per 200.000 Lire da
una società belga e, in definitiva, causa del declino e della
dispersione dei cogneins. Il carattere di questa gente lo
colpisce al punto da fargli redigere un racconto, Excursions à
Caractérisopolis, poi perso.
Nel 1866 gli viene ordinato un altro
spostamento, questa volta a Valgrisenche, sotto il Rutor. Qui non
sussiste il buon rapporto che aveva a Cogne con il suo curato: il
parroco, l'ayassino Blaise Couronné Prince, "(…) considerava
i vicari come spie dei superiori e festeggiava con grandi banchetti il
giorno della loro partenza". Gorret si sente inutile,
condizione particolarmente dolorosa per uno spirito irrequieto come il
suo: "Non avevo assolutamente niente da fare, il curato voleva
fare tutto da sé".
Saranno dunque due anni ed un mese di disagio,
ravvivati da alcuni articoli, in formato di lettere, inviati al
bollettino periodico del Club Alpino. "Vi propongo qualche
escursione in Valgrisenche.."
Nel luglio 1867, Amé Gorret rinuncia alla
scalata del Monte Bianco per obbedire al suo vescovo che lo invia
all'ultimo momento a Châtillon, sconvolta da un'epidemia di colera che
provocherà 78 decessi, colpendo anche Aosta e Nus. Gorret vi permane
fino all'ottobre 1868, per quelli che definirà successivamente "tre
mesi di forte impegno".
Nel 1869 Gorret conosce anche una parentesi
didattica, insegnando al monastero di Saint Gilles, a Verrès, dove
molto tempo prima morì Piero d'Introd sfidando il Duca di Savoia per
amore di Caterina di Challant. Qui egli applica in concreto le sue
opinioni innate: secondo il Deffeyes, Gorret vedeva la religione come un
appiglio che si offre allo scalatore per aiutarlo a restare in parete, e
per "religione" intendeva la più stretta dottrina promossa
dalla Chiesa Cattolica romana. "Roma è l'immortale depositaria
della tradizione politica, letteraria e religiosa", scriveva
infatti il sacerdote valdostano che mai aveva visitato quella lontana
città, ribadendo la sua diffidenza per l'aria di rinnovamento che,
grazie alla nuova svolta politica e militare della Penisola, stava
lambendo perfino la remota Valle d'Aosta. Tuttavia non sconfessava
affatto la ragione, concludendo salomonicamente "C'è lo stesso
pericolo nell'annientare la ragione che nel farla regina: credere che la
ragione sia tutto è negare Dio, ma credere che la ragione sia nulla è
negare l'uomo". E' il 29 agosto 1869 quando Amé Gorret, ormai
conosciuto nell'ambiente alpinistico e da tempo socio onorario del Club
Alpino Italiano, è invitato al Congresso dell'omonima istituzione, a
Varallo Sesia, dove si presenta con un'acuta relazione dal titolo
"Le montagne che ci separano sono le stesse che ci uniscono".
Nel corso della sua esposizione Gorret attacca il pregiudizio che,
allora, voleva l'Italia priva di uguali in termini di arte e cultura, ma
seconda ad altri Paesi per ambiente e montagne: quest'ultimo punto
provoca il forte disprezzo dell'oratore, che giunge a rilevare "Non
sono forse nostri i giganti delle Alpi?"
Anche la gioventù di allora è criticata da
Gorret, poiché essa "(…) rifugge la fortificante fatica
dell'alpinismo, vive troppo degli splendori e della gloria del passato,
ignora la montagna e i suoi vantaggi, non conosce il ghiacciaio che per
sentito dire e crede di aver fatto chissà che cosa solo per aver
toccato la neve in luglio o in agosto". Dietro le sue parole,
tuttavia, c'è ben altro: la consapevolezza di trovarsi al cospetto, per
la prima volta, di eruditi e preparati uomini provenienti da tutte le
zone vicine e lontane della nuova Italia, convenuti a Varallo Sesia
sotto l'egida di quel rinnovamento voluto dal Piemonte e destinato a
creare un'unica entità politica. Gorret, come ben notava Gianni
Valenza, aveva compreso che la sua amata Valle d'Aosta avrebbe potuto
ricavare grandi benefici da questa nuova situazione unitaria, in termini
di strade, tecnologie, ferrovie, turismo e cultura... In altri termini, progresso.
Nelle parole di chiusura di Amé Gorret sembra
quasi di poter leggere lo slancio derivato dal dinamismo di quel momento
storico, una sorta di nazionalismo pacato e profondo, rivolto
soprattutto alle montagne: "Ma le nostre montagne, tutte le
nostre più alte montagne ci sono state "soffiate" dagli
intrepidi figli dell'indomabile Albione!"
La conclusione del discorso rientra
completamente nello spirito di unitarietà che permea l'assemblea: "Ebbene,
l'affollata e importante assemblea a cui ho l'onore di rivolgermi mi
dice che le barriere non ci separano più, ma sono precisamente queste
montagne, sono questi colli, sono questi stessi ostacoli che ci hanno
riuniti qui. E allora! Riuniamo i nostri sforzi, studiamo la nostra
bella Patria, che il lavoro di ognuno serva a tutti gli altri, e che i
risultati di questo lavoro diventino per mezzo del Club Alpino il
patrimonio delle masse, la prosperità materiale e morale delle valli più
arretrate." A questo punto, l'oratore torna a parlare della
gioventù, di quella gioventù che avrebbe materialmente creato l'Italia
del futuro: "Spingiamo la gioventù verso i monti, là vi troverà
esercizio, forza e solidità di carattere, i piacere puri e duraturi che
essa va cercando vanamente altrove".
Quasi un anno esatto più tardi, il 28 agosto
1870, Gorret si venne a trovare a Domodossola in compagnia dell'inglese
Richard Henry Budden, benefattore della Valle d'Aosta da lunga data, per
presenziare ad un nuovo congresso del Club Alpino. Gli echi
dell'entusiasmo unitario dell'anno precedente, così promettente di
nuove esplorazioni ed ascese, non si erano spenti: tuttavia, quando
venne il suo turno, Gorret stupì profondamente l'uditorio con un duro
attacco alle guide alpine. La sua intransigenza verso i costumi ed i
comportamenti da lui ritenuti esecrabili è nota, e lo spinse a spiegare
come, dopo la prima ascensione del Bianco da parte di Balmat e del
dottor Paccard, le guide si fossero trasformate in "tiranni"
arrogatisi il diritto di scegliere a priori orari, percorsi, onorari e
via dicendo. Gorret rivendica con forza, invece, il diritto basilare del
cliente a poter scegliere, a poter decidere il passo da tenere, perché
lo scopo principale dell'intero rapporto guida- cliente è fornire a
quest'ultimo un periodo di serenità, contemplazione, confronto con sé
stesso. Non una maratona in cui tutte le tappe sono già state
inderogabilmente pianificate da persone terze. "Alla guida si affida tutto ciò che
si ha, lo zaino, gli strumenti, il portafoglio e la vita stessa",
sostenne infatti Gorret. "Che
si esigano dalle guide una fedeltà e una
moralità irreprensibili".
Gorret estende la sua critica all'intero popolo valdostano, a quel
popolo cui appartiene: "Il valdostano deve imparare a
conoscere e ad amare il forestiero, e non deve giudicarlo come si fa con
i commessi viaggiatori". Un
discorso, come si evince facilmente da questi esempi, destinato a
destare grande stupore in coloro che lo ascoltarono, forse convinti di
potersi aspettare argomenti meno diretti e, sicuramente, non
contrapposti a personaggi del mondo di Gorret quali le guide o lo stesso
popolo della Valle d'Aosta. Il marzo 1873
lo vede approdare, dopo l'ennesimo trasferimento, a Lillianes, in una
terra dura e scoscesa. Tra il 1875 ed il 1876 è invece vicario a Perloz,
dopodiché viene sostituito da un giorno all'altro, senza il minimo
preavviso. Il 1876 vede
però anche la pubblicazione, a Torino, della prima guida della regione
Aostana: si tratta della rarissima Guide Illustré de la Vallée d'Aoste, che Gorret ha redatto insieme al barone Claude-Nicolas Bich. Un
lavoro importante e destinato ad avere grande eco nell'ambiente
alpinistico di allora: in questo contesto si inseriscono ampiamente le
moderne visioni di Gorret sul turismo, mezzo di avvicinamento tra
montanari e cittadini, volto ad arricchire spiritualmente i secondi ed a
garantire un sostentamento ai primi. Niente a che vedere con il turismo
in voga all'epoca e, forse, anche in tempi più recenti: "I
turisti partono con il treno più diretto e vanno al gran galoppo fino
alle montagne; per strada non vedono niente, perché non possono perdere
tempo". Per Amé Gorret, il
turista vuole essere un viaggiatore, una persona che ama il cammino ed i
piccoli disagi che esso comporta: "Un viaggiatore che
parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che
rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena
lasciato". Una frase che oggi,
dove sempre più spesso nuove cosiddette opere architettoniche assediano
la montagna, è emblematica.
Il 1878 lo
vede in una nuova parrocchia, ancora come semplice vicario, a Gignod,
sotto la mole dell'Emilius. In quest'anno termina un altro lavoro
letterario, questa volta incentrato sulle abitudini e le imprese del
sovrano appena scomparso, il
Victor-Emmanuel sur les Alpes.
Nel 1880 è
vicario a Champdepraz, presso San Francesco di Sales, da gennaio ad
ottobre. Al ritorno, il parroco non lo pagherà nemmeno. E tra le
infinite peregrinazioni del robusto ecclesiastico così chiacchierato e,
forse, temuto nella Curia aostana, riecheggiano le sue stesse parole: "Io
credo ancora all'anima della terra e alla sua azione su di noi; può
trattarsi dell'anima spirituale, o di un'altra entità indefinibile, ma
è quel sentimento che infine sa rendere tutta la poesia del viaggiare,
questo atto altrimenti ridicolo, questa gara tra due piedi per passare
sempre l'uno davanti all'altro". Nel 1881,
Gorret trascorre un sereno Natale presso gli amici torinesi, prima di
imbarcarsi in un'avventura oltre frontiera. Desiderando visitare il
Delfinato si era infatti rivolto all'avvocato Henri Ferrand di Grenoble,
il quale aveva mediato un permesso per il sacerdote di Valtournanche
presso l'arcivescovo del posto, monsignor Fava. Per la prima volta,
questi aveva nominato Gorret curato di una piccola parrocchia, S. Martin
de Clelles, vicina al Mont Aiguille. Dopo pochi mesi, nel 1883, Gorret
riesce a farsi spostare proprio dove desiderava: Saint Christophe en
Oisans, nella cui zona compirà svariate ascensioni. Il 1884, però,
vede la fine di questo periodo più lieto. Il 24 marzo aveva nuovamente
chiesto all'avvocato Ferrand di intercedere per uno spostamento di sede,
quando apprende la notizia che da Parigi è stata decretata l'espulsione
di tutti i sacerdoti stranieri. Il 20 settembre valica nuovamente il
passo del Piccolo San Bernardo, rientrando in patria, dove però lo
attendono ancora -dopo ben quattro anni!- antipatie e invidie. La
popolarità, il successo di Gorret presso i colti circoli intellettuali
ed alpinistici dell'epoca, i suoi scritti, la sua irruente schiettezza,
i suoi modi di fare così poco ortodossi e rispettosi del comune modo di
vivere ecclesiastico di allora lo rendono fastidiosamente scomodo:
questi motivi decidono il suo allucinante e lunghissimo esilio, che
durerà ben ventuno anni, nel remoto borgo di St.Jacques
des Allemands,
in Val d'Ayas. Amé Gorret è
scomodo per via del suo anticonformismo che valica i confini della
canonica, per la sua voglia di fare, per il suo piglio unico di
affrontare le avversità e di confrontarsi con il proprio prossimo..
Tutto questo in un periodo ed in un ambiente che non sopporta queste
attitudini comportamentali. Sono questi, in definitiva, i motivi
dell'esilio ayassino. Si vengono così a troncare, nel momento meno
opportuno, circa cinquant'anni di studi, capacità, conoscenza,
intelligenza. Ci si chiede cosa non sarebbe potuto diventare Amé Gorret
se non gli fosse stato ordinato di chiudersi in un eremo proprio quando
era all'apice della sua capacità produttiva: quali opere non avrebbe
potuto lasciarci, quali imprese alpinistiche non avrebbe potuto
realizzare ancora.
La chiusura
forzata nell'eremo ayassino è umiliante per un uomo così attivo e
capace. Il passare degli anni, le poche e misere incombenze che gli sono
affidate -come l'insegnamento ai bambini, poiché la comunità non
poteva permettersi un vero maestro- mortificano in Gorret l'anima del
dotto conferenziere dei congressi del CAI, dello scrittore,
dell'alpinista, dell'uomo abituato ad affrontare di petto le difficoltà
della vita. Una marmotta addomesticata ed un corvo, che poi gli verrà
ucciso dalle parrocchiane, erano la sua unica compagnia. Percorreva
ancora i ghiacciai e le montagne, ed ogni tanto la Regina Margherita
veniva a trovarlo dalla vicina residenza di Gressoney; ella gli
commissiona quattro messe all'anno, pagandole 400 Lire l'una, e perfino
re Umberto gliene fa dire due, a 1000 Lire l'una. Erano in realtà poco
più che aiuti economici per quello che, in molti ambienti alpinistici,
era visto sempre più come una sorta di titano rinchiuso nel Tartaro: un
Tartaro bellissimo ed alpestre, certo, ma tremendamente isolato. Pochi
amici lo raggiungevano ancora, ormai; probabilmente soffriva gravemente
di disturbi legati all'alcolismo.
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Nel 1890, di
ritorno da Gressoney, un attacco improvviso lo colpì mentre attraversa
la zona della Bettolina, paralizzandolo per una settimana. E' la fine
delle imprese alpinistiche di Amé Gorret.
Nove anni più
tardi la Tipografia Commerciale di Biella gli pubblicò, insieme a
Giovanni Varale, la bella e rara Guida
illustrata della Valle di Challant o d'Ayas.
E' nel medesimo, oscuro periodo che cresce il mito dell'Orso della
montagna, dal soprannome adottato dallo stesso Gorret in una lettera
dell'11 giugno 1890 al giornale Valdotâin riguardante
la tutela del linguaggio francofono in Valle d'Aosta. Successivamente si
era anche firmato "L'Ermite de Saint- Jacques", delineando
chiaramente il suo pensiero circa la propria condizione di esiliato,
mentre l'eco provocato dalle sue imprese e dal suo modo di fare sfumava
lentamente nelle tante leggende che parlavano delle sue colossali
bevute, del suo comportamento ieratico, del mistero di quel grand'uomo
"sepolto" in una delle zone allora meno conosciute della
regione.
Nell'agosto
1898, la regina Margherita incontrò ancora Gorret a St.Jacques,
scendendo da Gressoney per il Colle Ranzola. In questa occasione donò
al sacerdote il famoso
alpenstock che
egli avrebbe sempre conservato con grande cura, lo stesso che appare
nelle fotografie degli ultimi anni di vita del sacerdote della
Valtournanche.
La vecchiaia
di Gorret, forse accelerata dal peso dell'isolamento e dall'alcool con
il quale si confortava, fu inclemente con un uomo così amante della
vita all'aria aperta, dei grandi spazi, della grandiosità alpina. Un
primo colpo gli derivò nel 1902, con la cecità che lo costrinse ad un
intervento all'Ospedale oftalmico di Torino, nel 1903. Gorret ritornò
quindi a St.Jacques, nel suo eremo, dimenticato da tutti finché, nel
1905, venne trasferito nel priorato di Saint Pierre, in compagnia degli
abati Ménabréaz e Cerlogne. Le giornate trascorrevano scandite dalle
ombre familiari della Grivola, del Rutor e dell'Emilius, ma ancora nel
1906 il vescovo gli vietò la partecipazione al ritiro del clero, per
evitare che Gorret "distraesse" gli altri sacerdoti presenti.
Come si vede, l'abate Gorret rimase un "prete scomodo" fino
alla fine dei suoi giorni, restando fedele e coerente agli ideali ed al
comportamento di una vita intera.
Amé Gorret morì il 4 novembre 1907. E'
sepolto nel priorato di Saint Pierre, insieme ad altri otto abati; nel
2007 è ricorso il centenario della sua morte, ricordata con un convegno
a Champoluc, il 18 agosto. Particolarmente
interessante, inoltre, l'articolo dedicato all'"Orso della
montagna" da parte del Presidente del Club Alpino Italiano,
Annibale Salsa, ne "La Rivista" di novembre - dicembre 2007: "L'Abbé
Gorret ed il Club alpino delle origini: dalla tradizione valligiana alla
modernizzazione turistica nel segno dell'alpinismo"
(pp. 22- 24).
Gorret, l'alpinista
Uomo di carattere e di polso, forte nelle
proprie convinzioni quanto nell'affrontare la montagna e la vita, Amé
Gorret non può essere ricordato da una semplice biografia, per quanto
ammirata. Non è opportuno limitarsi ai meri cenni biografici o agli
infiniti spostamenti cui fu "condannato" durante la sua
carriera ecclesiastica, perché Amé Gorret, colui che divenne l'Orso
della montagna, era innanzitutto un alpinista. Il valore delle sue
imprese pionieristiche, la sua abnegazione, il suo profondo entusiasmo
verso la montagna renderebbero ingiusto terminare un discorso incentrato
su questo eccezionale personaggio con il triste declino della sua
vecchiaia, con la sua morte solitaria. Ecco, dunque, che s'impone un passo indietro nel
tempo: un ritorno agli anni che videro l'abate Gorret nel pieno del
vigore, gli anni delle sue imprese alpinistiche.
E' l'estate 1857 quando Gorret, allora
seminarista, si trova in vacanza. Egli ha intenzione di tentare una
grande impresa, insieme al cacciatore di camosci Jean- Jacques Carrel ed
a Jean- Antoine Carrel, il quale nel 1849 aveva combattuto a Novara nei
ranghi piemontesi. Ma il momento storico e l'interesse verso quella
montagna imponente obbligano a mantenere segreto il progetto: i tre
partono dopo aver lasciato intendere soltanto una normale caccia alla
marmotta. La loro impresa è parzialmente coronata dal successo,
nonostante le evidenti difficoltà (acuite dai materiali di
quell'epoca indubbiamente fervida di entusiasmo ma pionieristica) ed i
tre scalatori raggiungono, per primi, la Testa del Leone, a 3700 metri.
Sarà tuttavia nell'estate del 1865 che i
molteplici tentativi di scalata al Cervino avranno successo, grazie alla
tenacia ed alle capacità di Edward Whymper. La storia è nota: il 14
luglio il londinese ed i suoi compagni saliti da Zermatt conquistano la
vetta, mentre appena più in basso la cordata italiana, guidata da Jean-Antoine Carrel, li scorge affranta dal Pic Tyndall. A nulla sono valsi i
tentativi di precedere il britannico, la cui vittoria sarà comunque
funestata dalla morte di quattro dei suoi compagni, in discesa. Anche Amé
Gorret ha partecipato a questa storica "prima", sebbene
seguendo la scalata dal Corno del Teodulo. Ma il 15 luglio, il giorno
successivo alla sconfitta italiana, Jean-Antoine Carrel decide di
risalire e conquistare a sua volta la vetta, poiché si tratta di una
questione d'onore. La presenza del giovane sacerdote è gradita: "Oh!
S'il y a l'abbé, alors
victoire!"
Il 16 luglio i due partono alle 06.30 dal Breuil,
accompagnati da Jean- Baptiste Bich e Jean- Augustin Meynet. Alle nove
di mattina traversano al di sotto della Testa del Leone senza incontrare
neve, superando poi lo ciarfiou, il camino. Alle 13.00 si fermano
sotto la Grande Tour per la notte. Il 17 luglio, alle prime luci, rivela
ancora il bel tempo dei giorni precedenti. Purtroppo, nonostante gli
sforzi, la cordata si trova bloccata in un colatoio a pochissima
distanza dalla vetta, in un punto oggi attrezzato: Gorret deve
sacrificarsi e, di buon grado, cala di circa otto metri Carrel e Bich, i
quali poco dopo escono in cima passando dalla cresta di Zmutt. Lo
sfortunato religioso resta lì, dopo aver calato gli amici, consolandosi
cercando di ideare un sistema più efficiente per calare in sicurezza
alpinisti e, in futuro, quei touristes a cui dovrà tanto il
futuro della Valle d'Aosta.
"Mi avessero coperto d'oro non mi
sarei rassegnato: ma si trattava di un sacrificio, e lo feci. Piantando
i talloni sull'orlo del baratro, la schiena appoggiata alla parete, le
braccia chiuse sul petto, calo due dei miei compagni, uno dopo l'altro,
mentre il terzo rimane con me..".
Il panorama appena conquistato –nuvoloso in
Valtournanche, sereno in Svizzera dall'altro versante- non vale certo a
compensare il povero Gorret della mancata puntata in vetta, dopo tanti
sacrifici. I quattro ritornano in tenda alle 21.00 circa, sotto la
grandine, mentre il giorno successivo si farà grande festa al Breuil. Amé Gorret, colui che sarebbe diventato
l'Orso della montagna, salì molte altre vette. Fu alpinista per nascita
e per vocazione, per passione e per amore delle alte quote. Tuttavia ci
piace concludere in questo modo la breve immagine di quest'uomo forte e
schietto, così poco adatto alle piccole ipocrisie e falsità di una
vita condizionata: con la figura emblematica dell'alpinista che pur
essendo disposto a qualsiasi cosa per conquistarsi un posto in vetta,
dopo tante fatiche, rinuncia e permette ad altri compagni di andare
avanti.
Questo fu Amé Gorret, l'Abbé Gorret, un uomo
semplice e profondo che non è stato dimenticato.
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