Maggio 2016. Quasi alla fine del periodo canonico di apertura dei rifugi del Monte Rosa per la stagione scialpinistica, dopo ben quattro fine settimana consecutivi di maltempo, è finalmente il nostro turno: si torna in quota. Venerdì 6 maggio, alta Valle del Lys: un laborioso inanellarsi di curve e panorami celati dalle vertiginose balze che premettono, infine, la testata valliva. In basso, la neve sbiadisce sui prati ancora incolti, il parcheggio di Stafal è deserto, bar e servizi igienici chiusi: questo non impedisce ai gestori degli impianti di imporci una tariffa record, ben 40 Euro per un’unica corsa giornaliera, fissata alle ore 15.00 da Stafal a Indren. Una decisa maggiorazione rispetto all’anno scorso, notata da tutti i presenti, e in più lingue. Viene fatto notare che, qualora fossimo saliti in giornata, avremmo pagato solo 35 Euro; qualcuno lamenta la chiusura infrasettimanale degli impianti, malgrado la presenza di rifugi aperti - a fronte di un investimento importante - in quota.
Le nebbie svelano il ghiacciaio e parte della Vincent solo sul Garstelet, dove arriviamo alle 17.35.
La cena al Rifugio Gnifetti, come sempre, è superlativa. Centrotrenta coperti, personale efficiente e veloce, e il piacere di rivedere l’amica Erica che gestisce il suo team trovando sempre un po’ di tempo anche per noi: ci racconta di aver dovuto spalare circa sei metri di neve a inizio stagione, ci parla dei pochi clienti infrasettimanali dovuti alla chiusura degli impianti, delle disdette degli ultimi weekend, causa meteo inclemente. Ricorda temperature polari, -44° C, e suggerisce di lasciare il rifugio dall’ingresso anteriore, per evitare i crepacci sul lato sottostante la cappella. Forse a causa delle temperature, Erica ha fornito ogni stanza di caldi, morbidissimi piumoni a foggia di sacco a pelo, e la notte è torrida. Le cinque di mattina, pare, non arrivano mai.
Salita sul Monte Rosa
Sabato 7 maggio. Le cinque di mattina arrivano prestissimo!, come non detto. Per la precisione alle 04.50, momento in cui si accende il generatore e con lui, la luce nella nostra stanza, la numero 20. Da due cordate, durante la colazione, ci ritroviamo in una da tre: l’amico Gabriele opta per rimanere al rifugio, mentre ci rifocilliamo di buon passo. Un ultimo saluto a Erica, giù nella sala da bar, e siamo già fuori ad allestire la corda, a controllare i ramponi. Oltre a me ci sono due amici fidati: il fotografo Giorgio e la mia compagna di cordata, Audrey.
A dividerci, parecchia corda e i rispettivi nodi a palla. L'ultima cosa che scorgo dell'antico rifugio è una costellazione di piccole, aguzze stalattiti dal colore latteo, sotto le luci che sfiorano soltanto il pendio glaciale in basso.
Il morale, perlomeno il mio, è al massimo. Amo queste cose, il ruggito del vento, il tintinnio dei moschettoni e delle viti, il pulviscolo di neve che filtra attraverso le luci delle frontali. Associo da sempre il semplice atto di legare un paio di ramponi a una sorta di vita 2.0, a un tempo più intenso, di maggior valore e sapore rispetto a qualsiasi altra attività compiuta durante il normale fluire dei miei giorni. E se è penoso, stamani, doppiare il Gnifetti e risalire il ghiacciaio - c’è neve fresca, si sprofonda - sento una canzone, un richiamo, fortissimo. Qualcosa di antico come il mondo, che mi ha preso una volta e che non mi lascerà mai.
Risaliamo i primi pendii sotto uno strato basso di nuvole incolori, amorfe, in assenza di vento. Infiniti puntini neri si snodano dietro di noi, giù fino ai due rifugi, tutti con gli sci ai piedi: vicino a noi un’altra cordata di alpinisti, una giovane e simpatica coppia parigino-normanna. Il sole irrompe sul grande ghiacciaio quando la pericolosa seraccata della Piramide Vincent è quasi sfilata al nostro fianco, sulla destra. Salgo fiutando le vene della superficie, evitando le “pozze” candide di “fresca”, poggiando il rampone sui microscopici rilievi, sulle linee trasformate dagli sciatori del giorno prima, e riesco a non sprofondare il più delle volte. Quando va male, si va dentro fino al ginocchio, ed è penoso per tutti e tre.
Amo il Rosa, il suo mutare incessante. Siamo ai piedi del Balmenhorn, e meraviglia: l’immensa faglia apertasi lo scorso anno ed estesa dalle sue rocce fin quasi al Naso del Lyskamm è chiusa. Perlomeno in parte. Non c’è più l’alto gradino, lo squarcio nero ai suoi piedi, la muraglia che aveva costretto le Guide alpine di Gressoney ed Alagna a intervenire per costruirne un valico. La s’individua ancora facilmente, specie dall’alto, come una sorta di lungo e maligno sorriso, uno strappo ricucito nel bianco del ghiacciaio: ma la zona pare in buone condizioni, malgrado l’assenza di un inverno degno di questo nome.
L'intera Valle d'Aosta è sepolta sotto una coltre di nubi candide, spumeggianti, da cui emergono soltanto il Bianco e il Grand Combin.
Puntiamo dapprima al Corno Nero, sul quale tuttavia due giovani tedeschi sembrano in difficoltà: il primo ha perso un rampone, il secondo lo aiuta a rimetterlo, mentre un cortese signore italiano li aiuta dall’alto, facendo sicura con la propria corda e tranquillizzandoli nella loro lingua. La rampa è occupata, e in parte verglassata; ci spostiamo quindi brevemente fino alla vicina Ludwigshöhe, che non salgo dal settembre 2015. Una cima di 4342 metri, ottimo punto di vista sulle vette circostanti e sul lungo solco del Rosa, l’ideale per comprenderne le condizioni. Pochi minuti, e sono in vetta. Una bella sorpresa: il profondo spacco, fotografato appena prima della cima della Ludwigshöhe, è scomparso. Ne resta un lieve solco, quasi una cicatrice, ma nessuno potrebbe mai immaginare la profondità della ferita inferta dall’estate 2015: anche qui, il ghiacciaio lenisce i danni, resiste, vive. Cambia.
Portiamo a valle una messe di fotografie, oltre all’urgenza di rientrare a Indren entro le 15.00 imposte dalle funivie. Le nebbie rendono più difficile la discesa: scialpinisti e appiedati come noi, persi tra il Rifugio Mantova e il plateau di Indren alla ricerca della stazione d’arrivo della funivia, con visibilità zero. Sono quasi a terra, il caldo del sole di oggi si fa sentire, così come un substrato di stress preesistente che pretende il suo scotto. E’ dura, e ce la facciamo con lo scarto di ventisei miserabili minuti: sul terrazzino di Indren, fuori dalle porte scorrevoli (chiuse), una quindicina di scialpinisti rimasti lì a congelare. Chi è salito alla Vincent era lì, nel nulla e senza sole, dalle 12.30.
In conclusione, una giornata esaltante, nella meraviglia dell’alta quota, al prezzo di un faticoso e frettoloso ritorno. Pur appiedati, siamo riusciti a spingerci fino a metà del massiccio, quando mancavano ormai soltanto la Parrot, la Punta Gnifetti e la bella Zumstein a compleare l’ascensione; abbiamo constatato le buone condizioni del manto nevoso, l’assenza o chiusura dei principali crepacci nei soliti punti, e sta per arrivare una settimana di provvidenziale maltempo. Tutte buone notizie, malgrado il drammatico trend regressivo dei nostri ghiacciai, per la stagione estiva ormai imminente.
Un unico, e molto più terreno pensiero, forse banale: il costo individuale dell'intera spedizione, salito ormai a ben 110 Euro per i soli impianti e per la mezza pensione al rifugio, con rincari rimarchevoli da un anno all'altro. Volendo aggiungere la spesa per la benzina e l'autostrada, c'è da chiedersi per quante persone, specialmente in Italia, queste brevi ascensioni "di prossimità" siano ancora concretamente fattibili.